Le rivolte degli addetti al tessile in Bangladesh sono frequenti e l’ultima, iniziata di recente, ha superato la barriera dell’attenzione mediatica. Circa quindici giorni fa, i lavoratori in varie zone come Gazipur, Ashulia e Savar hanno protestato con forza, bloccando strade e manifestando per aumenti salariali, richiedendo 23mila takas (circa 190 euro) al mese rispetto agli attuali 8300 takas (circa 70 euro).
Il Bangladesh, dopo la Cina, è un grande esportatore nel settore tessile, con oltre 3500 aziende e quasi quattro milioni di lavoratori, principalmente donne.
Ogni anno vengono consumati 1.500 miliardi di litri d’acqua per produrre vestiti della fast fashion e con un totale di 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili.
Oltre a essere al secondo posto come settore più inquinante al mondo, dopo quello petrolifero, l’industria tessile della fast fashion è famosa per la sua continua violazione dei diritti umani sui posti di lavoro.
Possiamo solo ricordare il crollo del Rana Plaza di Savar nel 2013 che ha portato a 1134 vittime a causa delle inesistenti regole di sicurezza, solo per poter risparmiare sui costi di produzione.
Dietro a ogni saldo, ad ogni maglietta che costa 5 euro, ci sono persone che rischiano ogni giorno, lavorando in condizioni disumane con una paga che non permette loro di vivere.
Il futuro del settore tessile richiede una trasformazione etica e sostenibile,le richieste di equità non possono essere ignorate.
L’umanità del lavoro dovrebbe essere al centro di ogni industria, e solo così potremo costruire un futuro dove la moda sia sinonimo di giustizia sociale e rispetto per l’ambiente.
NON C’È GIUSTIZIA CLIMATICA SENZA GIUSTIZIA SOCIALE
fonti: Internazionale, Lifegate