di Luisa Neubauer, Greta Thunberg, Adélaïde Charlier, e Anuna de Wever, 4 ottobre 2020
“Sappiamo di non essere in linea con l’accordo di Parigi, non abbiamo mai detto di esserlo. Ma dobbiamo portare il pubblico dalla nostra parte piano piano…”
Tra noi quattro, negli ultimi due anni abbiamo incontrato un buon numero di leader mondiali e probabilmente rimarreste sorpresi nel sentire alcune delle cose che ci dicono quando le telecamere e i microfoni sono spenti. Potremmo scrivere moltissimi articoli su questo.
E credeteci: lo faremo.
Una delle più grandi e pressanti minacce per l’umanità è la convinzione che si stia mettendo in atto una reale e sufficiente azione di salvaguardia del clima, che ci si stia occupando della faccenda, quando in realtà non è così. Per niente. Il momento dei “piccoli passi nella giusta direzione” è finito da tempo, eppure questo è, nella migliore delle ipotesi, esattamente ciò che i nostri leader stanno ora cercando di ottenere. Ci stanno letteralmente rubando il futuro davanti agli occhi.
Gli obiettivi proposti per la riduzione delle emissioni di CO2 per l’UE del 55%, del 60% o perfino del 65% entro il 2030 non sono neanche lontanamente sufficienti per essere in linea con l’obiettivo di 1,5°C, e nemmeno con il “ben al di sotto dei 2°C” dell’accordo di Parigi.
La nostra democrazia dipende interamente dall’informazione che hanno i cittadini sulle questioni che li riguardano, ed è proprio inquietante, a dir poco, che queste non vengano divulgate con precisione. Soprattutto visto che l’emergenza climatica deciderà il futuro dell’umanità. Quindi abbiamo raccolto qui dei punti chiave che spiegano alcune delle ragioni per cui questi obiettivi proposti sono molto lontani dall’essere sufficienti. Per favore, condivideteli il più possibile.
– Le riduzioni proposte all’interno dell’Unione Europea saranno effettuate a partire dal 1990, anno utilizzato come riferimento. Ma poiché da allora l’UE, seguendo un ritmo di riduzione delle emissioni molto lento negli ultimi 30 anni, ha già ridotto le sue emissioni territoriali del 23% circa, ciò significa che l’obiettivo di riduzione del 55% annunciato dalla Commissione Europea, di fatto è di 55% meno 23% dai livelli degli anni ’90 fino al 2030. E rispetto ai livelli attuali, questo ammonterebbe suppergiù ad una riduzione effettiva delle nostre emissioni di appena 42%. E questo equivale già ad una grossa diminuzione delle ambizioni. Inoltre, le riduzioni dell’UE dal 1990 sono avvenute, in larga misura, grazie all’esportazione delle nostre fabbriche in altre parti del mondo. Prendiamo ad esempio la Svezia, dove i numeri dell’indice dei consumi sono fortunatamente resi pubblici dalle autorità. Qui le emissioni di CO2 sono state ridotte di circa il 27% dal 1990. Tuttavia, se includiamo l’indice di consumo totale (merci importate prodotte al di fuori del paese), così come l’aviazione e la navigazione internazionale (sempre escluse nei numeri internazionali ufficiali riportati…), l’aumento di queste tre cifre compensa TUTTE le emissioni ridotte all’interno dei confini svedesi. Di fatto, quindi, le emissioni della Svezia non sono affatto diminuite. Le hanno solo esportate o nascoste con una manovra di contabilità creativa della CO2, una prassi abituale in tutta Europa e nel mondo intero. La cosa fondamentale è che quando i leader dell’UE promettono una riduzione delle emissioni del 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, devono essere onesti fin dall’inizio ed esplicitare che ciò si traduce in una riduzione di appena il 42% rispetto ai livelli del 2018. E ovviamente sarà una riduzione ancora minore, una volta che si tiene conto delle riduzioni avvenute a causa della tragedia del Covid-19. I leader devono anche essere trasparenti sul fatto che questo obiettivo comprende solo una parte delle emissioni totali dell’UE, escludendo quelle importate, non contabilizzandole (come spieghiamo nel prossimo punto).
– Le riduzioni proposte non calcolano le emissioni del trasporto aereo internazionale, del trasporto marittimo né, ancora, del consumo di beni prodotti al di fuori dell’UE. Quindi, per esempio, se il vostro computer portatile è stato prodotto in Cina, le vostre scarpe in Indonesia, i vostri jeans in Bangladesh, la vostra giacca in India, il vostro caffè in Kenya, il vostro smartphone in Corea del Sud e la vostro bistecca in Brasile, allora, in pratica, nessuna di queste cose verrà conteggiata come emissioni dell’UE. E un breve viaggio in treno da Colonia ad Aquisgrana comporterà più emissioni di un volo andata/ritorno per Buenos Aires o Bangkok. Questo problema non sarà “risolto” dalla vaga proposta di futuri aggiustamenti del carbonio alle frontiere [i cosiddetti BCA, acronimo di Border Carbon Adjustments, ndt]. Gli obiettivi di riduzione dell’UE e le statistiche relative devono includere tutte le emissioni dell’UE.
– Le riduzioni proposte non includono l’aspetto dell’equità, che è assolutamente essenziale per far funzionare l’accordo di Parigi a livello globale. Le nazioni dell’UE hanno chiaramente accettato di essere all’avanguardia e di dare ai paesi a basso e medio reddito la possibilità di dotarsi di alcune delle infrastrutture che noi abbiamo già costruito, la maggior parte delle quali con il massiccio ricorso ai combustibili fossili in questi ultimi due secoli. Come strade, ospedali, acqua potabile pulita, scuole, reti elettriche e così via. Se non riusciamo a fare da guida e dare per primi l’esempio come abbiamo promesso, allora come possiamo aspettarci che paesi come la Cina e l’India facciano la loro parte?
– Anche l’idea diffusa di dimezzare le nostre emissioni entro il 2030 (calcolate però partendo dal 2010, non dal punto di riferimento del 1990 favorito dall’UE…) si basa su un bilancio del carbonio che ci dà solo il 50% di possibilità di rimanere al di sotto di 1,5°C. Ma questa probabilità presuppone che gli ecosistemi naturali, l’oceano e le calotte di ghiaccio rimangano stabili, cioè che non passino punti di non ritorno, innescando dei cicli di feedback che accelererebbero il surriscaldamento. Come le emissioni prodotte negli incendi, la morìa delle foreste per malattie e siccità, il calo dell’effetto albedo dovuto alla scomparsa dei ghiacci marini, o il rapido degrado del permafrost artico e il conseguente rilascio di metano. Questa probabilità non include neanche l’ulteriore riscaldamento a cui sarà soggetta l’atmosfera, ora nascosto dagli inquinanti tossici nell’aria, che da solo potrebbe arrivare a + 0,5 a 1,1°C. Né tantomeno considera l’aspetto dell’equità. Perdipiù, presume una futura rimozione di enormi quantità di CO2 dall’atmosfera, con tecnologie che molto probabilmente non esisteranno per tempo alla scala ipotizzata. Quindi la probabilità del 50% è in realtà molto meno del 50%.
Naturalmente ci sono anche altre scappatoie nella proposta di riduzione dell’UE, come la nuovissima argomentazione, tipica del business as usual, di includere i già esistenti “carbon sink” (siti naturali di assorbimento e fissazione di carbonio) nel computo degli obiettivi verso lo “zero netto”. In altre parole: usare l’esistenza delle foreste come scusa per non ridurre le emissioni.
“Includere nel computo i carbon sink significa che il nuovo obiettivo del 55% sarebbe effettivamente inferiore al 50% rispetto all’obiettivo attuale”, dice il climatologo Bert Metz, che ha copresieduto il gruppo di lavoro sulla mitigazione dell’IPCC dal 1997 al 2008. Altri suggeriscono che lo scarto sia più vicino al 2%.
Quindi: 55% meno 23% dai livelli degli anni ’90, meno il consumo di merci importate, meno l’aviazione internazionale e il trasporto marittimo, meno un altro 2-5% fa… insomma, la sottrazione di percentuali diventa un po’ una sfida da matematici, ma il concetto generale vi sarà chiaro. Il punto è che sono molte le sottrazioni rispetto agli obiettivi annunciati del 55%, del 60% o del 65% entro il 2030.
Senza dubbio la commissione UE sosterrà che una base di riferimento del 1990 è “più giusta”, perché “Il 1990 è sempre stato l’anno di riferimento per gli obiettivi climatici dell’UE”, e: “Perché l’UE dovrebbe essere punita per aver iniziato a ridurre le nostre emissioni 30 anni fa?”. Ecco, la risposta è che in realtà non abbiamo iniziato a ridurre le nostre emissioni da allora. Le abbiamo semplicemente spostate all’estero e ne abbiamo escluso una gran parte dai numeri ufficiali.
E l’idea che ad alcune nazioni o regioni debba essere concesso un trattamento di favore metterà senza dubbio a serio rischio l’intero accordo di Parigi.
Non ci può essere giustizia sociale senza giustizia climatica. E non può esserci giustizia climatica se non ammettiamo di aver scaricato all’estero gran parte delle nostre emissioni, sfruttando la manodopera a basso costo e le cattive condizioni di lavoro, nonché le tutele ambientali più deboli.
Perché non solo i meno responsabili della crisi climatica già ne soffrono maggiormente le conseguenze, ma ora li incolpiamo anche per le nostre emissioni, perché sono loro che producono le cose che noi compriamo.
Sebbene qualsiasi riduzione delle emissioni di CO2 sia ovviamente benvenuta, le proposte della Commissione e del Parlamento europeo sono molto, molto lontane dall’essere sufficienti. E nonostante questo, il dibattito sul tema è ancora completamente assente. Questa cosa deve cambiare se vogliamo avere almeno una piccola chance di evitare una calamità climatica ed ecologica che presto non potrà essere annullata.
I nostri leader devono affrontare l’emergenza climatica anziché creare nuove scappatoie e smettere di formulare altre cosiddette “promesse” basandosi sulle stesse tattiche disoneste che ci hanno messo in questa brutta situazione.
Parliamoci chiaro. La conseguenza di tutti questi obiettivi e impegni proposti è che noi, molto probabilmente, perderemo quell’esiguo margine di opportunità che ci resta per rimanere in linea con l’accordo di Parigi. Ciò di cui abbiamo bisogno, innanzitutto, è l’attuazione di bilanci annuali vincolanti per il carbonio basati sulla migliore scienza attualmente disponibile, e di smettere di far finta di poter risolvere la crisi climatica ed ecologica senza trattarla come tale. (Come abbiamo spiegato di recente nella nostra lettera aperta).
Circa un terzo delle nostre emissioni globali di CO2 da combustibili fossili è stato emesso dal 2005. Oltre il cinquanta per cento si è verificato nei 30 anni dal 1990 ad oggi. Le nostre emissioni annuali sono ora così elevate che ogni singolo anno di business as usual avrà un impatto sulle future condizioni di vita di innumerevoli generazioni, e così pure sulle persone che oggi vivono nelle aree più colpite. I nostri attuali leader ne sono i responsabili. E se continuiamo a lasciare che siano solo gli scienziati, le ONG e gli attivisti a comunicarlo, allora falliremo. Per oltre due anni abbiamo ripetuto il nostro messaggio: ascoltate la scienza, agite in base alla scienza. Ma è chiaro che il messaggio ancora non viene recepito. La scienza viene ancora ignorata.
La giustizia per le persone più colpite, nelle zone più colpite, viene negata sistematicamente.
L’emergenza climatica sta rapidamente sfuggendo al nostro controllo. Se vogliamo avere ancora una possibilità, allora questo deve diventare l’obiettivo primario di tutti. Deve dominare le notizie, le politiche e la società intera. A partire da oggi.
”The EU is cheating with numbers — and stealing our future”
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Per gentile concessione delle autrici; traduzione di FFF Italia.
(Foto: François Dvorak, 2020)
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