di Sebastiano Michelotti
Fridaysforfuture Italia
Siamo sull’orlo di una crisi energetica, mentre imperversa una guerra, dopo anni di crisi pandemica. Un tale quadretto riassume al meglio le conseguenze del contesto più ampio in cui viviamo: l’emergenza climatica ed ecologica. Dopo decenni di relativa pace e placido benessere il mondo tutto si accorge di aver procrastinato fin troppo i problemi strutturali di cui ha sempre sofferto. Il sesto report dell’IPCC appena pubblicato, nella parte che riguarda l’adattamento alle conseguenze di questa crisi, lascia intendere l’urgenza di una presa di responsabilità definitiva e sostanziale da parte della politica. «Ho visto tanti report, ma mai nulla di simile a questo, un atlante della sofferenza umana e del fallimento della leadership climatica» ha dichiarato il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres.
In effetti, mai come oggi il ruolo della politica, come figura guida della società globale, si è rivelato tanto indispensabile ed essenziale quanto fallimentare. Se, da una parte, le soluzioni richiedono una considerevole azione di tipo politico, che sia rivolta al lungo periodo e consideri principi come la giustizia sociale e l’uguaglianza, dall’altra ci troviamo catapultati nel pieno di un nuovo conflitto aperto nel cuore del continente europeo. Questo evidenzia i limiti strutturali di un sistema che finora ha seguitato ad aumentare di anno in anno la spesa militare complessiva, per un totale di quasi 2000 miliardi di dollari, ma lamenta continuamente di non avere abbastanza fondi da mettere in campo per la riduzione delle emissioni di CO2 e la riconversione ecologica. Un tale sistema internazionale è per sua natura portato a degenerare in conflitti: e più tensioni la crisi climatica gli sottoporrà, dalle migrazioni di massa alla carenza di cibo e acqua, più frequenti saranno le guerre. L’attuale guerra in Ucraina è un deprecabile esempio di questo fallimento, consumato sulle spalle e sulla vita di persone innocenti. La guerra in sé è sempre un fallimento e deve essere condannata.
La crisi russo-ucraina apre, inoltre, un’importante questione dal punto di vista energetico per tutta l’Europa e, in particolare, per l’Italia che dipende per più del 40% dalle forniture di Mosca. I prezzi dell’energia sono saliti alle stelle e c’è il rischio che da un giorno all’altro si chiudano i rubinetti di gas. Il bel paese potrebbe rimanere, non molto romanticamente, al lume di candela. Il governo Draghi ha subito disposto misure di emergenza, ma invece che cogliere l’occasione per dare una svolta al sistema energetico italiano, investendo massicciamente in fonti di energia pulita e a portata di mano, ha preferito rimanere, per così dire, fossilizzato.
Mentre si cercano nuove forniture di gas dall’Algeria e si pianifica l’approvvigionamento dagli Stati Uniti, fa discutere il piano di riaprire le centrali a carbone. Non si tratta di un compromesso accettabile in ragione dell’emergenza e adottabile solo per un breve periodo, ma di una manovra che ritarderà il percorso di decarbonizzazione dell’Italia di svariati anni, vincolandoci a infrastrutture e fonti fossili. Il carbone costituiva al massimo il 5% della produzione di energia nazionale, a fronte di alti tassi di inquinamento ed emissioni. Difficilmente riaprire un paio di centrali, come quella a La Spezia o a Civitavecchia, farà la differenza sul piano della sicurezza energetica. Al contrario, la loro attivazione richiede una prassi di valutazioni e procedure burocratiche che ne permetterebbe la fruizione non prima di un anno, e la loro dismissione definitiva slitterebbe ben oltre i target scientifici minimi, su cui già siamo in ritardo.
Per garantire un backup di medio-breve periodo al Paese sono sufficienti le risorse che già abbiamo e le centrali che già sono attive, basterebbe farle andare a pieno regime in caso di necessità. Nel frattempo, potremmo concentrare attenzioni e risorse nel percorso che ci emanciperebbe definitivamente da queste problematiche, e che stiamo solo procrastinando colpevolmente da troppi anni. Secondo uno studio del think thank ECCO, l’Italia potrebbe dimezzare la dipendenza dalla fornitura russa entro il prossimo inverno, senza ricorrere a nuove implementazioni di gas o carbone. Il tutto con un risparmio complessivo in bolletta di ben 14,5 miliardi.
Questo sarebbe possibile sviluppando un sistema a energie rinnovabili combinate, unito ad una smart-grid per la gestione e distribuzione intelligente ed efficiente dell’energia, che ci garantirebbe energia pulita e sicura per il futuro. I tempi tecnici sono, in realtà, esigui rispetto ad altre soluzioni: le tempistiche di costruzione di un impianto possono essere stimate tra i 6 e i 12 mesi. La grande variabile è sempre rappresentata dall’iter burocratico necessario per le autorizzazioni e dalla disponibilità delle comunità locali. Per questo sarà fondamentale equilibrare sapientemente delle strategie di facilitazione delle procedure, garantendo comunque la salvaguardia dei criteri necessari, e delle tecniche di governance capaci di instaurare un sano dialogo diretto con i cittadini per renderli parte del processo e facilitare l’accoglimento.
Se tutto questo sembra irrealistico e impossibile, forse è utile rendersi conto che lo è molto meno delle soluzioni proposte dal governo. Tra voli pindarici per accaparrarsi quote di gas da ogni angolo del globo, ad atavici piani per il ritorno al carbone, spuntano idee a dir poco bizzarre, per non dire estreme. La più scioccante è il ricorso ai “distacchi programmati delle utenze”, ovvero, qualora fosse necessario, la fornitura di luce a gas nelle case dei cittadini potrebbe venire interrotta e razionata. Nulla potrebbe rivelarsi più estremo, stiamo parlando dell’ultima delle ultime spiagge. Eppure, a quanto sembra, la strada delle rinnovabili non viene presa in considerazione neanche a questo punto.
Non è difficile ritrovare l’assurda radice di questo bias. Innanzi tutto, è doveroso far notare che questa crisi energetica, che minaccia di lasciare il paese a luci spente, prima di essere un’emergenza contingente è un profonda mancanza di cui la politica ne ha la piena responsabilità. Dopo decine di anni in cui la scienza e la società hanno richiesto a gran voce una transizione che ci svincoli dalle fonti fossili, continuo strumento di tensioni geopolitiche e responsabili della crisi climatica, quasi nulla è stato fatto. Se allora avessimo compiuto quanto necessario, oggi l’Italia – così come l’Europa – potrebbe affrontare questa situazione a testa alta, e i cittadini non dovrebbero pagare a caro prezzo le inadempienze della classe dirigente. È una colpa semplicemente imperdonabile, non ci sono fattori scusanti: il momento era propizio, le tecnologie esistevano ed erano già più convenienti delle altre soluzioni. Non intraprendere tale strada è stato un azzardo dettato dalla sete di profitto nutrita rispetto ai combustibili fossili.
In secondo luogo, questa situazione porta alla luce un altro aspetto fondamentale di questo bias cognitivo che affligge le rinnovabili. Continuamente, nel dibattito pubblico ma anche tra gli addetti ai lavori, sentiamo ribadire che le energie rinnovabili metterebbero a rischio la stabilità energetica del paese. Essendo intrinsecamente aleatorie, in quanto dipendono dalla presenza di sole o vento in quel determinato momento, non sarebbero capaci di rispondere alle necessità di un sistema così voracemente energivoro. L’assurdità è che questi problemi sono scientificamente risolvibili grazie a sistemi di gestione intelligente che integrano diverse tecnologie di accumulo. Nulla ha mai empiricamente dimostrato il contrario. Dall’altra parte, invece, i combustibili fossili, a discapito della loro teorica illimitatezza, si sono rivelati sul piano reale molto più insicuri di qualsiasi altra cosa. È ciò che stiamo vivendo proprio oggi: siamo sull’orlo di una crisi energetica perché non abbiamo combustibili fossili con cui alimentare il sistema, e non esiste scienza che risolva le guerre. Questo si chiama fallimento. E non è solo da oggi che ne siamo consapevoli: sono diverse, nella storia, i casi in cui le fonti fossili ci hanno messi alle strette – si ricordino le crisi petrolifere degli anni settanta – costringendoci a inseguirle avidamente, promuovendo guerre, invasioni e sistemi estrattivi sempre più dannosi.
La nostra società è come un alcolizzato, aggrappata alla bottiglia di oro nero e disposta a tutto pur di non rinunciarvi. Ecco da dove proviene quel bias che non ci permette di vedere, davanti ai nostri occhi, delle soluzioni tanto semplici quanto naturali. Dobbiamo disintossicarci e ritrovare l’equilibrio con il sistema naturale che ci circonda. È questo, in fondo, il principio dell’energia rinnovabile: prendere ciò che la natura può darci in quel momento e gestirlo sapientemente per ottenere ciò di cui abbiamo bisogno.
Manca un ultimo tassello di questa equazione, tanto banale quanto indispensabile proprio in momenti come questi, evidenziato anche dall’analisi di ECCO. Stiamo compiendo una corsa contro il tempo, attaccati da due fronti: da una parte la crisi climatica ci obbliga a ridurre le nostre emissioni, pena il collasso della civiltà come la conosciamo, dall’altra una guerra che rischia di farci tornare nel medioevo. È molto semplice: tutta l’energia che non consumiamo è energia che non dobbiamo riconvertire. Semplicemente un problema in meno. Se pare assurdo è perché siamo abituati ad un sistema dove i consumi possono solo crescere, non importa se, come già oggi avviene, consumiamo più di quanto il sistema pianeta può darci in termini di risorse. È giunto il momento di cambiare il paradigma di base, avviare un esteso programma di efficientamento su larga scala che ci permetta di azzerare gli sprechi. Parallelamente è necessario rimodellare alcuni meccanismi del sistema stesso, come i trasporti, in modo che l’attività umana, ad esempio la necessità di spostarsi, venga soddisfatta consumando semplicemente meno.
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