FCA, la multinazionale dell’auto nata dalla fusione tra l’italiana FIAT e l’americana Chrysler, ha annunciato di essere in trattative col governo italiano per ottenere garanzie pubbliche su un prestito di 6,3 miliardi di euro per soccorrere FCA Italy, la controllata che opera nel nostro paese. Si tratta di uno dei salvataggi che le grandi corporation stanno chiedendo agli stati di tutto il mondo per fronteggiare le perdite dovute alla pandemia.
La notizia ha scatenato un vespaio di contestazioni, tanto che il premier Giuseppe Conte è stato costretto a risponderne in tv. Cerchiamo allora di capire perché questo enorme prestito sia così critico e come mai tanti siano contrari.
FCA è un grande emettitore, che ha come core business quella mobilità privata basata sul fossile che sta contribuendo a devastare il clima. Come denunciato di recente da Extinction Rebellion, FCA è stata nel 2018 l’azienda con emissioni per veicolo più alte rispetto ai brand concorrenti, ed ha ricevuto una sanzione per aver falsficato i test ambientali su alcuni modelli diesel. Nonostante tutto ciò, le garanzie che lo stato italiano si prepara a offrire – impegnando quindi i soldi dei contribuenti – non risultano essere vincolate a nessun target climatico o piano di riconversione ecologica del gruppo, in barba agli impegni presi dal nostro paese nell’ambito degli Accordi di Parigi, dell’European Green Deal e della recente dichiarazione d’emergenza climatica approvata dal parlamento.
FCA ha sede fiscale nel Regno Unito e sede legale nei Paesi bassi, nazioni che non hanno nessun particolare legame con l’azienda ma scelti al solo scopo di eludere parte delle tasse che spetterebbero alla collettività del paese d’origine. Meno di un mese fa abbiamo denunciato come ENI, Saipem e ENEL approfittino del dumping fiscale olandese – lo stesso stratagemma adottato dal colosso automoblistico. Ogni operazione di salvataggio di FCA dovrebbe essere vincolata al trasferimento delle sedi legale e fiscale del gruppo in Italia.
John Elkann, proprietario di FCA, ha anche recentemente acquistato il gruppo GEDI, l’azienda madre di mezzi d’informazione seguitissimi come Repubblica, La Stampa, L’Huffington Post, l’Espresso e tanti altri. Proprio Repubblica, il quotidiano di punta del gruppo, ha recentemente preso in un editoriale le difese del proprietario, tentando di spingere il governo ad accettare le richieste di FCA. Un’intrusione criticata dagli stessi giornalisti di testata, a cui è stato vietato di pubblicare un comunicato in cui si dissociavano dalle scelte della dirigenza. L’informazione ha un ruolo fondamentale nel raccontare l’urgenza della crisi climatica, e lo stringersi dei legami tra i grandi emettitori e la stampa del nostro paese ci preoccupa profondamente.
I governi di tutto il mondo si trovano in questo momento di crisi di fronte a scelte epocali. Possono dare retta ai piani miopi di aziende che mettono al primo posto i dividendi promessi ai loro azionisti, oppure garantire la priorità di lavoro ora e in futuro alle persone che a milioni chiedono di non tornare al business-as-usual. Possono scegliere tra superati modelli industriali (che si ricordano del bene pubblico solo quando gli permette di farsi salvare a spese della collettività) o scegliere di mettere le persone e il loro futuro sul pianeta davanti ai richiami di questi capitani d’impresa – gli stessi che hanno condotto questa “barca su cui ci troviamo tutti” così al largo, in acque esposte a intemperire sempre più frequenti e minacciose.
I nostri rappresentanti eletti quale rotta sceglieranno?
Il nostro governo avrà il coraggio di iniziare a cambiare direzione?
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