di Jason Hickel, 15.11.21
Ora che si è chiuso il sipario sulla COP26, la 26esima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico, i risultati non sembrano buoni. Nonostante una miriade di proclami da prima pagina, gli impegni delle varie nazioni non ci portano affatto vicino all’obiettivo dell’accordo di Parigi sui 1,5 gradi. Secondo Climate Action Tracker, il 73% degli impegni di “emissioni zero” attuali sono deboli e inadeguati: offrono un “sostegno solo di facciata all’azione climatica”. Inoltre, rimane un divario enorme tra le promesse, che sono abbastanza facili da fare, e le politiche effettive, che sono quel che conta davvero. Si possono prendere tutti gli impegni del mondo, ma quel che serve è agire. Ebbene, le politiche governative in essere in questo momento ci stanno portando dritti verso un riscaldamento di 2,7 gradi nei prossimi decenni.
Cosa succederà al nostro mondo in condizioni del genere? Quando le temperature si avvicineranno ai 3 gradi, il 30-50% delle specie sarà probabilmente sterminato. Più di 1,5 miliardi di persone saranno sfollate dalle loro regioni d’origine. I rendimenti delle colture di base subiranno un grave declino, innescando interruzioni prolungate dell’approvvigionamento alimentare a livello globale. Gran parte dei tropici sarà resa invivibile per gli esseri umani. Un mondo così non è compatibile con la civiltà come la conosciamo. Lo status quo è una marcia funebre. I nostri governi stanno tradendo noi e ogni forma di vita sulla terra.
Per questo vale la pena chiedersi: come sarebbe se trattassimo la crisi climatica davvero come emergenza? Cosa ci vorrebbe per mantenere il riscaldamento globale a quel massimo di 1,5 gradi? Il singolo intervento più importante è quello che finora nessun governo è stato disposto a toccare: mettere un limite all’uso dei combustibili fossili e ridurlo gradualmente, con un programma annuale vincolante, fino a smantellare l’intera industria entro la metà del secolo. Ecco qui. Questa è l’unica soluzione certa per fermare il collasso del clima. Se vogliamo agire davvero, implementare questa politica dovrebbe essere in cima alle nostre priorità.
La velocità con cui questo deve avvenire varia a seconda delle nazioni. I paesi ricchi sono responsabili della stragrande maggioranza delle emissioni in eccesso che stanno causando il collasso del clima. Hanno anche consumi di energia molto più elevati degli altri paesi, e molto al di sopra rispetto a quanto è necessario per soddisfare i bisogni umani, laddove la maggior parte del surplus è dirottato verso l’espansione aziendale e i consumi delle élite. Quello di raggiungere zero emissioni entro il 2050 è un obiettivo medio globale. Un approccio equo richiederebbe ai paesi ricchi di eliminare la maggior parte dei combustibili fossili non più tardi del 2030 o 2035, per dare ai paesi meno sviluppati più tempo per la transizione. Ci rendiamo conto?
Suona drammatico ma allo stesso tempo è lampante. I combustibili fossili sono responsabili di tre quarti delle emissioni di gas serra, e devono sparire. Una nuova campagna, sostenuta da 100 premi Nobel e diverse migliaia di scienziati, chiede un trattato di non proliferazione dei combustibili fossili per ottenere proprio questo: un accordo internazionale per porre fine ai combustibili fossili secondo un calendario equo e vincolante. Perché allora i politici sono così restii a fare questo passo fondamentale?
In parte è perché non hanno abbastanza coraggio per affrontare le imprese di combustibili fossili e il loro esercito di lobbisti, che combattono con le unghie e con i denti per scongiurare ogni minima minaccia ai loro profitti. E in parte è perché si sono bevuti la favola – propagandata dai miliardari e da altri che hanno interesse a mantenere lo status quo, comprese le stesse imprese di combustibili fossili – che verranno inventate tecnologie capaci di succhiare abbastanza carbonio fuori dall’atmosfera, per cui possiamo continuare a bruciare combustibili fossili per tutto il secolo. Questa è la fregatura dietro le promesse di “emissioni zero”. Chiaramente, la rimozione del carbonio dovrà giocare un ruolo, ma gli scienziati hanno avvertito a più riprese che questa cosa non è fattibile su larga scala, oltre ad essere una scommessa altamente rischiosa: se per qualsiasi motivo fallisse, rimarremmo bloccati in una traiettoria di riscaldamento senza via di uscita.
Una volta accettata questa realtà, dobbiamo affrontare il fatto che ridurre i combustibili fossili abbastanza in fretta da evitare la catastrofe significa cambiare fondamentalmente l’economia. E voglio dire fondamentalmente.
Pensiamoci. Immaginiamo che l’anno prossimo si tagli l’uso dei combustibili fossili del 10%, l’anno successivo di un altro 10%, e così via l’anno dopo e quello dopo ancora. Anche se facciamo tutto il possibile per costruire le infrastrutture per l’energia rinnovabile e migliorare l’efficienza energetica – cosa che dobbiamo fare con urgenza – non c’è modo di appianare il divario. La verità è che i paesi ricchi dovranno andare avanti con meno energia. Molta meno.
Come possiamo gestire uno scenario del genere? Beh, nell’economia esistente sarebbe un caos totale. Il prezzo dell’energia andrebbe alle stelle. La gente non potrebbe permettersi i beni essenziali. Le imprese crollerebbero. La disoccupazione crescerebbe. Il capitalismo – che dipende dalla crescita perpetua solo per rimanere a galla – è strutturalmente incapace di sostenere una tale transizione.
Fortunatamente, esiste un altro modo. È possibile mantenere il riscaldamento globale al di sotto di 1,5 gradi, ma richiede entrare in modalità di emergenza. E ci chiede di essere onesti con noi stessi sulla realtà di ciò che deve cambiare. Niente più favole.
Per prima cosa, dobbiamo nazionalizzare l’industria dei combustibili fossili e le compagnie energetiche, portandole sotto il controllo pubblico, proprio come qualsiasi altro servizio essenziale. Questo ci permetterà di ridurre la produzione e l’uso dei combustibili fossili in linea con i programmi basati sulla scienza, senza dover combattere costantemente il capitale carbonfossile e la sua propaganda. Ci consentirà anche di proteggerci dal caos dei prezzi, e di razionare l’energia dove è più necessaria, per mantenere i servizi essenziali.
Allo stesso tempo, dobbiamo di ridimensionare le parti meno imprescindibili dell’economia per ridurre la domanda di energia in eccesso: SUV, jet privati, viaggi aerei commerciali, carne da allevamento industriale, fast fashion, pubblicità, obsolescenza pianificata, il complesso militare industriale e così via. Abbiamo bisogno di concentrare l’economia su quel che è necessario per il benessere umano e la stabilità ecologica, piuttosto che sui profitti aziendali e sul consumo delle élite.
In secondo luogo, dobbiamo proteggere le persone stabilendo una solida base sociale, una garanzia sociale. Dobbiamo garantire il diritto a sanità pubblica universale, casa, istruzione, trasporti, acqua, energia e internet, in modo che tutti abbiano accesso alle risorse che servono per vivere bene. E mentre la produzione industriale superflua rallenta, dobbiamo accorciare la settimana lavorativa per ripartire più equamente il lavoro necessario, e introdurre una garanzia climatica del lavoro per assicurare che tutti abbiano accesso a un reddito dignitoso, con un reddito di base per coloro che non possono lavorare o che scelgono di non farlo. Questo è il fondamento di una transizione giusta. Come si finanzia una garanzia sociale del genere? Qualsiasi governo che abbia sovranità monetaria può farlo immettendo la moneta nazionale; pensate all’”allentamento quantitativo”, ma questa volta per le persone e il pianeta. Una mossa del genere è fattibile per tutti i paesi ad alto reddito, anche se per i membri dell’UE dovrebbe essere fatto in modo coordinato. La cosa cruciale è che per prevenire qualsiasi rischio di inflazione, dobbiamo anche ridurre il potere d’acquisto dei ricchi. E questo ci porta al prossimo punto chiave.
In terzo luogo, occorre creare un regime fiscale che superi per sempre lo squilibrio di ricchezza che vediamo oggi. Come ha sottolineato Thomas Piketty, ridurre il potere d’acquisto dei più ricchi è il modo più efficace per ridurre il consumo eccessivo di energia e le emissioni che ne derivano. Può sembrare radicale, ma pensiamoci un attimo: è irrazionale – nonché pericoloso – continuare a sostenere una classe che consuma troppo nel mezzo di un’emergenza climatica. Non possiamo permettere loro di appropriarsi dell’energia in modo tanto sproporzionato rispetto a quello di cui chiunque potrebbe ragionevolmente aver bisogno.
Come fare? Un possibile approccio sarebbe quello di introdurre una tassa patrimoniale. Renderla abbastanza severa da incentivare i ricchi a vendere i beni in eccesso rispetto alle esigenze reali. Possiamo anche introdurre una politica di reddito massimo, in modo che tutto ciò che supera una certa soglia sia tassato al 100%. Oltre a tagliare l’eccesso di consumo al vertice, questo approccio ridurrà l’ineguaglianza ed eliminerà il potere oligarchico che inquina la nostra politica.
Quarto, abbiamo bisogno di una massiccia mobilitazione pubblica per raggiungere i nostri obiettivi ecologici. Dobbiamo costruire infrastrutture di energia rinnovabile, espandere il trasporto pubblico, isolare gli edifici e rigenerare gli ecosistemi naturali. Questo richiede investimenti pubblici, ma anche lavoro. C’è moltissimo da fare, e non succederà da sé. È qui che entra in gioco la garanzia di lavoro per il clima. La garanzia del lavoro assicurerà che chiunque voglia possa formarsi per partecipare ai progetti collettivi più importanti della nostra generazione, facendo un lavoro dignitoso, socialmente necessario e con un salario che permetta di vivere.
Infine, devono esserci impegni espliciti sui risarcimenti climatici. I paesi ricchi hanno colonizzato persino l’atmosfera per il proprio arricchimento, infliggendo la maggior parte degli impatti sul Sud del mondo. Questo è un vero e proprio furto: il furto del bene comune dell’atmosfera, un bene essenziale per tutti. E’ un atto criminoso che deve essere risanato. I nostri fratelli e sorelle del Sud del mondo che già oggi subiscono il peso schiacciante di una catastrofe della quale non sono affatto i responsabili hanno bisogno del massimo nostro sostegno. Questo dovrebbe includere una politica di cancellazione del debito, in modo che i paesi più poveri non siano più costretti a dedicare le loro limitate risorse a risarcire le grandi banche e possano invece concentrarsi sui bisogni delle comunità. Inoltre, le tecnologie rinnovabili andrebbero trasferite gratuitamente ai paesi che non possono permettersele, rinunciando ai brevetti se necessario, per facilitare la transizione energetica più veloce possibile a livello globale.
Come sarebbe un mondo così? Il cinismo e la paura lascerebbero il posto a speranza e solidarietà. Sentiremmo l’emozione e la fratellanza che vengono dal far parte di qualcosa di grande, qualcosa di trasformativo, qualcosa che ci unisce. Potremmo liberarci di tanta produzione superflua di merci, e anche tanti lavori inutili. La nostra società sarebbe più equa e la povertà sarebbe un lontano ricordo. La nostra economia sarebbe basata sui bisogni umani e sulla resilienza piuttosto che sull’accumulazione infinita di capitale. E soprattutto, le emissioni crollerebbero rapidamente, anno dopo anno, in un sostanziale cambio di rotta rispetto al fallimento degli ultimi decenni. Il nostro pianeta comincerebbe a guarire.
È improbabile, tuttavia, che qualche governo sia disposto, oggi, a fare questi passi necessari da solo, per paura di rimanere svantaggiato. Alcune nazioni progressiste potrebbero forse farlo, e questo aprirebbe la strada. Ma in definitiva abbiamo bisogno di un’azione coordinata, ed è per questo che il Trattato di non-proliferazione dei combustibili fossili è così importante. Sappiamo che l’unico modo in cui i governi ci libereranno dalle armi nucleari è che tutti i paesi lo facciano insieme. Lo stesso vale per i combustibili fossili.
Ecco come fermare il collasso del clima. Ma non succederà da sé. Chiedere gentilmente alla classe dirigente di agire non basterà. Ci vuole una grande lotta contro coloro che beneficiano così profumatamente dello status quo – come ha fatto ogni movimento che abbia mai cambiato il mondo, da quello per i diritti civili a quello anti-coloniale. Ci vuole il duro lavoro di organizzare le comunità, costruendo solidarietà pervasive abbastanza forti da resistere agli attacchi politici. Ci vogliono alleanze tra il movimento ambientalista e il movimento sindacale che vadano oltre i confini nazionali, per mettere in atto azioni di sciopero coordinate. Questo decennio è il perno della storia. Non possiamo permetterci di starcene seduti ad aspettare di vedere cosa succede. Dobbiamo incamerare il potere politico dove possiamo, o costringere chi è al timone a cambiare rotta.
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Testo per gentile concessione dell’autore; traduzione di Sarah D.S. e Claudia D.L. di FFF Italia.