Come altre nazioni ricche, il Regno Unito parla di crisi climatica molto più di quanto agisca. A Glasgow bisogna che le cose cambino.
Greta Thunberg
Il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha definito il recente rapporto IPCC sulla crisi climatica un “allarme rosso” per l’umanità. “Siamo sull’orlo dell’abisso” dice.
Potreste pensare che queste parole abbiano avuto l’effetto di un campanello d’allarme nella nostra società. Invece, come è già successo molte altre volte, non è andata così. Il rifiuto della crisi climatica ed ecologica è così profondo che oramai a malapena ci si fa caso. Dal momento che nessuno tratta questa crisi come tale, gli avvertimenti di portata esistenziale continuano a sprofondare in quella risacca costante che sono il greenwashing e il quotidiano flusso delle notizie.
Ma c’è ancora speranza, e la speranza non può che partire dall’onestà.
Perché la scienza non mente. I fatti sono chiari ed evidenti, ma semplicemente ci rifiutiamo di accettarli. Rifiutiamo di ammettere che ora siamo chiamati a scegliere se salvaguardare il pianeta vivente o il nostro stile di vita insostenibile. Ce ne rifiutiamo perché vogliamo entrambi. Li pretendiamo entrambi.
Ma la verità è che ci abbiamo pensato troppo tardi. Poco importa quanto questa realtà ci infastidisca: è ciò che i nostri leader hanno scelto per noi con decenni di immobilismo. Con decenni di bla bla bla.
La scienza non mente. Se puntiamo a rispettare gli obiettivi dell’Accordo di Parigi 2015 – ed a minimizzare così il rischio di innescare una reazione a catena irreversibile e ingestibile da parte dell’umanità – abbiamo bisogno di una riduzione delle emissioni immediata, drastica, su base annuale, di una portata che il mondo, finora, non ha mai visto. E siccome non abbiamo soluzioni tecnologiche che bastino da sole ad avvicinarci a tale obiettivo in tempi brevi, bisogna che mettiamo in atto cambiamenti sostanziali nella nostra società.
Attualmente andiamo verso un mondo più caldo di almeno 2,7 gradi centigradi entro la fine del secolo – sempre e solo se le nazioni rispetteranno tutti gli impegni presi. Allo stato attuale delle cose, ci sono tutt’altro che vicine. Siamo “apparentemente lontani anni luce dal raggiungimento degli obiettivi per il clima”, per citare ancora una volta Guterres. Di fatto, stiamo correndo nella direzione opposta. Al momento, si prevede che il 2021 si classificherà al secondo posto per il più alto aumento di emissioni mai registrato, e si prevede un ulteriore aumento del 16% delle emissioni globali entro il 2030 rispetto ai livelli del 2010. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, solo il 2% dei piani di ripresa tipo “build back better” è investito in energia pulita; mentre la produzione e l’utilizzo di carbone, petrolio e gas come combustibili solo nel 2020 sono stati oggetto di sovvenzioni di ben 5,9 mila miliardi di dollari. La produzione mondiale di combustibili fossili programmata di qui al 2030 ammonta a più del doppio di quanto stabilito e concesso dall’obiettivo di 1,5°C. La scienza ci sta dicendo che non c’è più modo di raggiungere i nostri obiettivi senza un cambiamento sistemico. Perché il raggiungimento di quegli obiettivi richiederebbe di stracciare contratti e abbandonare accordi e affari su scala incredibilmente vasta – cosa semplicemente impossibile nel sistema attuale.
In sostanza, non siamo nemmeno in grado di raggiungere obiettivi del tutto insufficienti ad invertire la rotta, tanto per cominciare. E il peggio deve ancora venire. Nel mio paese, la Svezia, una recente inchiesta giornalistica ha osservato che, considerando tutte le effettive emissioni della Svezia (territoriali, biogeniche, consumo di beni d’importazione, combustione di biomasse, gli investimenti dei fondi pensione e così via), solo un terzo del netto totale viene effettivamente considerato nei calcoli di monitoraggio degli obiettivi climatici. Molto probabilmente ciò non succede solamente in Svezia.
Di certo il primo passo per affrontare davvero la crisi climatica sarebbe includere nelle statistiche tutte le nostre reali emissioni, così da avere una visione d’insieme completa. Questo ci permetterebbe di valutare la situazione e di cominciare a mettere in atto i cambiamenti necessari. Ma questo approccio non è stato adottato – e nemmeno proposto – da nessun leader al mondo. Al contrario, ciò che fanno tutti è ricorrere alla farsa della retorica e delle pubbliche relazioni affinché sembri che stiano agendo.
Un esempio da manuale è il Regno Unito – uno Stato che attualmente produce 570 milioni di barili di petrolio e gas all’anno. Uno Stato con altri 4.4 bilioni di barili in riserve pronte all’estrazione nelle sue piattaforme continentali. Uno Stato che è anche tra i 10 maggiori produttori di emissioni nella storia. Le nostre emissioni restano nell’atmosfera fino a mille anni e abbiamo emesso già circa l’89% della quantità di CO2 con cui possiamo sperare di restare sotto 1,5°C. Ecco perché le emissioni del passato e la questione dell’equità non solo hanno un loro peso – ma rappresentano proprio il 90% dell’intera crisi.
Tra il 1900 e il 2016, il Regno Unito ha diminuito le sue emissioni territoriali del 41%. Tuttavia, nel momento in cui si considerano tutte le reali emissioni del Paese come il consumo di beni d’importazione, il trasporto aereo e le spedizioni internazionali, la riduzione si assesta semmai intorno al 15%. E questo esclude la combustione di biomasse come nella centrale della Drax a Selby – una centrale elettrica abbondantemente sovvenzionata e considerata “rinnovabile”, nonché, stando agli studi, la più grande produttrice di emissioni di CO2 del Regno Unito e la terza in tutta Europa. E il Regno Unito si considera comunque leader globale in fatto di politiche climatiche.
Il Regno Unito, chiaramente, non è l’unico Paese che fa ricorso alla contabilità creativa in fatto di emissioni. Questa è la norma. La Cina, che ad oggi è di gran lunga il maggior produttore di CO2 al mondo, intende costruire 43 nuove centrali a carbone in aggiunta alle 1000 già in funzione – sempre affermando di essere un’apripista in fatto di ecologia, impegnata a lasciare “un pianeta pulito e meraviglioso alle generazioni future”. Ma si pensi anche alla nuova amministrazione statunitense, che afferma di “ascoltare… la scienza” sebbene abbia recentemente annunciato – tra molte altre decisioni sconsiderate – che intende destinare milioni di ettari alla prospettazione di petrolio e gas; terreni che potrebbero produrre fino a 1,1 mila miliardi di barili di petrolio grezzo e 1,25 trilioni di metri cubi di gas fossile. Essere di gran lunga i più grandi produttori di emissioni della storia, nonché i primi produttori mondiali di petrolio, non sembra mettere in difficoltà gli Stati Uniti nel dichiararsi dei leader per il clima.
La verità è che non ci sono leader per il clima. Non ancora. Almeno non tra i Paesi ad alto reddito. Di fatto, affinché una qualsiasi vera leadership emerga, sono necessari un livello di consapevolezza pubblica e una pressione mediatica senza precedenti; entrambi fattori che, ad oggi, non esistono.
La scienza non mente, né ci dice come fare. Ci dà, però, un’idea di cosa deve essere fatto. È chiaro che siamo liberi di ignorarla e di continuare a negare l’evidenza; così come siamo liberi di nasconderci dietro numeri truccati, scappatoie varie e statistiche incomplete. Come se all’atmosfera importasse dei nostri quadri normativi. Come se potessimo discutere le leggi della fisica.
Come dice Jim Skea, un importante scienziato dell’IPCC :“limitare il riscaldamento ad 1,5 gradi è possibile, stando alle leggi della chimica e della fisica, ma farlo richiederebbe cambiamenti senza precedenti”. Sono molti gli elementi necessari affinché la Cop26 di Glasgow sia un successo. Ma serviranno soprattutto onestà, solidarietà e coraggio.
L’emergenza climatica ed ecologica, chiaramente, è solo uno dei sintomi di una crisi di sostenibilità in senso molto più ampio. Una crisi sociale. Una crisi fatta di disuguaglianze, che risale al colonialismo e oltre. Una crisi basata sull’idea che alcune persone meritano più di altre e che, di conseguenza, hanno il diritto di rubarsi e sfruttare le risorse e le terre altrui. È tutto interconnesso. Si tratta di una crisi di sostenibilità che gioverebbe a tutti affrontare. Ma è ingenuo pensare di risolverla senza andare alla radice.
La situazione può sembrare abbastanza cupa e senza speranza e, dato il susseguirsi di report e l’aumento di episodi estremi, il magone che sentiamo è più che comprensibile. Ma non dobbiamo dimenticare che possiamo ancora capovolgere la situazione. È assolutamente possibile, se siamo pronti a cambiare.
La speranza è tutt’attorno a noi: ci sarebbe solo bisogno di qualcuno – un leader mondiale o un Paese ricco o un importante canale TV o giornale che decidesse di essere onesto, di trattare la crisi climatica come la crisi che effettivamente è. Un leader che tenga conto di tutti i numeri per poi intraprendere azioni coraggiose al fine di ridurre le emissioni secondo il ritmo e le proporzioni che la stessa scienza chiede. Allora tutto potrebbe essere orientato verso l’azione e la speranza, con determinazione e risolutezza.
Il tempo scorre. Facciamo summit su summit. Le emissioni continuano a crescere. Chi sarà quel leader?
Traduzione di Fridays For Future Italia
Photograph: M. Quinn
Testo originale: The Guardian
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