di Mattia Marasti
Ogni anno la Pasqua porta con sè l’annosa polemica sul tradizionale pranzo a base di agnello.
Non mi sono mai interessato più di tanto a questa sterile discussione, nonostante io sia vegetariano da anni e il consumo di carne mi provochi un certo fastidio. Ma credo che, nonostante la sensibilità rispetto a queste tematiche sia andata aumentando in questi anni, fare leva sull’aspetto della compassione sia controproducente.
Ho smesso di mangiare carne nel maggio del 2016, alla soglia dei 18 anni. Quando vedevo uno spezzatino o della salsiccia cotta nel suo grasso o il tradizionale maialetto sardo allo spiedo non riuscivo più a pensare al piacere della carne che si scioglie in bocca, inondando le mie papille gustative di un caleidoscopio di sapori da discernere e analizzare. No, riuscivo soltanto a vedere un essere vivente, non tanto razionale quanto emotivo, inserito in un contesto di relazioni e affetti, che egoisticamente acquistavo o dal macellaio di fiducia o direttamente dall’allevatore. Strappare a quella fitta rete di affetti e rapporti quella vita solo per il mio piacere non era più tollerabile per la mia coscienza.
Ma la motivazione etica, fondata sull’empatia e la compassione, può essere controproducente. Per quanto a me la carne ricordi i rumori infernali di Meat is Murder degli Smiths, penso ai miei nonni. Nonno e Nonna sono cresciuti in Sardegna, dove il rapporto con l’animale è più diretto e il consumo di carne è una tradizione estremamente radicata. Quando nonno e nonna pensano alla carne, rivivono i momenti della loro giovinezza, i sapori e gli odori della macchia mediterranea, le risate di amici e amiche, alcuni scomparsi, rivedono i loro genitori sgozzare l’agnello, il maiale, la pecora.
Una posizione che punti sulla compassione significa invadere quel lato intimo di ognuno di noi che coincide con la parte più profonda e inviolabile dell’Essere. Nemmeno Hobbes si era spinto a tanto.
Ma allo stesso tempo, c’è una motivazione più pragmatica per abbandonare il consumo di carne e sposare una dieta vegetariana e uno stile di vita quanto più possibile antispecista: la crisi climatica.
Nel suo libro Possiamo Salvare il mondo prima di cena, Jonathan Safran Foer spiega come gli allevamenti intensivi e il moderno sistema di produzione della carne abbiano un impatto determinante sulle emissioni di gas serra e quindi sulla crisi climatica. E invita, pertanto, i suoi concittadini americani, da sempre amanti della carne, a concedersi una bistecca o un hamburger solo dopo le 7 di sera.
Si tratta di quella che possiamo chiamare la versione individuale della lotta alla crisi climatica: lo sforzo è quindi in mano al cambiamento nelle attitudini dei singoli individui.
In questi anni, però, vi è stato un importante dibattito sulle strategie da adottare per contrastare la crisi climatica. In particolare si è andata delineando una dicotomia tra chi, appunto, spinge su uno sforzo individuale- quindi abbandonare la dieta onnivora, ridurre al minimo gli spostamenti in macchina o aereo, fare la raccolta differenziata- e chi invece ritiene che la crisi climatica richieda interventi di sistema, che agiscano sul sistema produttivo prima che sulle abitudini individuali- quindi una tassazione delle attività inquinanti, maggiori investimenti in energie rinnovabili e uno Stato in grado di orientare la crescita verso obiettivi sostenibili.
Nel nostro paese la prima è più preponderante, anche per questioni anagrafiche e di struttura della società.
Queste due visioni, all’apparenza inconciliabili, nascono però da una falsa dicotomia che rischia, alla lunga di portare a un nulla di fatto. Anzi, rischia ancora di più di frazionare quei movimenti che vedono nella crisi climatica il problema principale che ci troveremo ad affrontare come umanità una volta finita la crisi sanitaria.
Prendiamo, per tornare al principio, il caso della dieta vegetariana.
Chi ha eliminato la carne dalla sua dieta sa quanto può essere gravosa- sia dal punto di vista dei soldi sia dal punto di vista del tempo impiegato. Non tutti, dopo una giornata di lavoro, possono avere un’ora o più di tempo per preparare una casseruola di melanzane al pesto o una cassata di verdure e riso thai. Se, per peggiorare la situazione, si trovano in una zona provinciale reperire gli ingredienti necessari, al di fuori delle solite verdure, può essere complicato, portando a una dieta poco variegata. Il comportamento individuale, quindi, si basa su questioni più sistemiche.
Allo stesso tempo, tuttavia, nemmeno una visione sbilanciata verso questo tipo di interventi si rivela efficace. Senza un cambiamento delle abitudini individuali, nessuna azienda punterebbe a investire, ad esempio, nella carne sintetica o in prodotti plant based, non avendo il mercato a cui venderle.
Per rilanciare un’azione volta a prendere sul serio la crisi climatica, questi due aspetti devono andare di pari passo: un’educazione all’empowerment individuale e alla costruzione di uno stile di vita a basso impatto ambientale e dall’altra un’azione incisiva, supportata da investimenti pubblici e che si leghi alla tematica della giustizia sociale.
Possiamo quindi salvare il mondo a Pasqua, evitando di mangiare agnello? Ovviamente da solo non basta. Ma può essere un inizio.