La sparizione dell’orizzonte

di Nick Couldry e Bruce Schneier

A sei mesi dall’inizio della pandemia, e senza scorgerne ancora una fine, molti di noi hanno iniziato a provare una sensazione di disagio che va oltre l’ansia o l’angoscia. È un sentimento senza nome che in qualche modo rende difficile continuare a fare anche le cose belle che facciamo regolarmente.

Quello che tiene in scacco le nostre routine quotidiane non è l’ansia legata agli adattamenti imposti dal lockdown, o le preoccupazioni per noi stessi o per i nostri cari – per quanto concrete queste siano. E non è neanche quella sensazione che, ad essere proprio onesti, la maggior parte di ciò che ora ci occupa è piuttosto autoriferito, a fronte delle vere urgenze di una pandemia globale.

C’è qualcosa di più preoccupante e sfuggente da nominare: un’incertezza riguardo al perché dovremmo continuare a fare tutto quello che per anni abbiamo dato per scontato fosse fondamentalmente di valore. Quello con cui ci stiamo confrontando è una sensazione che molti autori durante la pandemia hanno affrontato da varie prospettive: un’agitazione distratta che  proviene non tanto dal non sapere quando tutto ciò troverà una fine, quanto dal non sapere nemmeno a cosa assomiglierà questa fine. Forse la più acuta intuizione riguardo a questo sentimento è arrivata da Jonathan Zecher, storico delle religioni, che l’ha collegato ad un termine cristiano ormai dimenticato: l’accidia.

L’accidia, in origine, era un malessere che affliggeva molti monaci del Medioevo. Descriveva una condizione di inedia verso l’idea di cura, non perché si fosse diventati indifferenti o apatici, ma perché l’intero concetto di cura si era in qualche modo inceppato.

Come considerare questo particolare tipo di malinconia in questo momento di urgente crisi globale? Di primo acchito, tutti abbiamo molto a cuore i rischi per la salute dei nostri cari e del nostro prossimo. Tuttavia, in agguato al fianco di questo nostro curarci dell’immediato, c’è un senso di scardinamento, qualcosa che interferisce col nostro abituale curarci delle cose.

Una risposta emerge da un esperimento mentale spinto che possiamo fare a proposito del concetto di morte. Nel 2013 il filosofo Samuel Scheffler ha preso in esame un assunto essenziale che serbiamo, riguardo alla morte. Tutti noi presumiamo che ci sarà un mondo futuro che sopravviverà alla nostra singola vita individuale, un mondo popolato da persone suppergiù simili a noi, tra cui alcune imparentate con noi, e altre conosciute. E anche se raramente lo ammettiamo, questo postulato mondo futuro è l’orizzonte verso il quale è rivolto tutto quello che facciamo nel presente.

Ma cosa accade, si è chiesto Scheffler, se veniamo privati di questo presunto mondo futuro – se, mettiamo, ci viene detto che la vita umana finirà in una data stabilita, non molto oltre la nostra morte? Allora  le cose alle quali normalmente diamo importanza inizierebbero a perdere il loro valore. Il nostro senso del perché le cose abbiano rilevanza oggi si basa sull’assunto che queste cose continueranno ad avere un certo peso anche in futuro, quando noi non ci saremo più per poterle apprezzare.

Considerati in quest’ottica, i nostri rapporti attuali con le persone e con le cose sono, in un senso profondo, orientati verso il futuro. Si scrivono sinfonie, si costruiscono edifici, si concepiscono bambini tutto nel presente, ma sempre con in mente un futuro. Che cosa accade alla nostra bussola morale quando iniziamo a perdere il contatto con quel futuro?

È proprio qui, ritornando alle caratteristiche specifiche di questa pandemia globale, che vediamo più chiaramente cosa muove l’irrequietezza e lo scompenso che molti di noi stanno provando. La fonte della nostra attuale accidia non è la perdita di un futuro in senso letterale; anche gli scenari più pessimistici sul Covid-19 prevedono la sopravvivenza della nostra specie. Lo scompenso è più sottile: una disgregazione in praticamente ogni sistema di riferimento futuro su cui si basa il nostro procedere nel presente.

In quanto creature viventi, muoverci è un’attività che ci definisce, e per farlo abbiamo bisogno di orizzonti. Il coronavirus ha cancellato molti degli orizzonti spaziali e temporali sui quali facciamo affidamento, che solitamente non notavamo neanche. Non sappiamo come sarà l’economia, come proseguirà la vita sociale, come verranno modificate le nostre abitudini dentro casa, come sarà organizzato il lavoro, come sopravviveranno le università o le arti o il commercio locale.

Quello che ci turba non è solo la paura del cambiamento. È che se non possiamo più riporre fiducia nel futuro, molte cose diventano irrilevanti, e in retrospettiva inutili. Questa prospettiva deriva da un futuro la cui forma di base non possiamo più dare per scontata. Questo è ciò che sta sconvolgendo alle fondamenta il nostro modo di valutare l’importanza di quel che stiamo facendo in questo momento. Diventa davvero arduo, in queste condizioni,  rimanere ancorati al valore di attività che, per la loro intrinseca natura, sono orientate al futuro, come l’istruzione o il potenziamento delle istituzioni.

Questo è ciò che stanno provando molti di noi. Questa è l’accidia dei nostri giorni.

Dare un nome a questo malessere potrebbe sembrare un eccesso di zelo, ma è vero l’opposto. Forse l’aspetto peggiore dell’accidia medievale era proprio l’isolamento in cui i monaci dovevano gestire quel loro scompenso. Invece l’attuale disgregazione della nostra idea di futuro rappresenta una sfida condivisa. Perché quello che è disgregato è l’intero sistema del prendersi cura che è alla base delle nostre ragioni per continuare ad agire insieme, e questo può essere riparato soltanto attraverso una ritrovata solidarietà.

Una tale solidarietà, tuttavia, pone una condizione necessaria: che si parli apertamente del problema dell’accidia, e di come ci impedisca di affrontare le nostre paure più profonde legate al futuro. Una volta fatto ciò, possiamo riconoscerlo come un problema che scegliamo di affrontare insieme – al di là dei vari tracciati politici e culturali – come famiglie, come comunità, come nazioni e come umanità globale. E, così facendo, accogliere la nostra vulnerabilità condivisa, anziché soffrire ognuno per conto proprio.

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Nick Couldry è professore di media, comunicazione e scienze sociali alla London School of Economics e professore associato al Berkman Klein Center for Internet & Society a Harvard. È contattabile qui: http://www.nickcouldry.org

Bruce Schneier è un tecnologo di tematiche di pubblico interesse, e fa ricerca su l’intersezione tra persone, sicurezza e tecnologia. È docente e ricercatore alla Kennedy School a Harvard e un membro del consiglio della Electronic Frontier Foundation. È contattabile qui: https://www.schneier.com

Daniel Popper è un artista multidisciplinare di nomea internazionale. È contattabile qui: http://www.danielpopper.com

”The unrelenting horizonlessness of the Covid world”

https://edition.cnn.com/2020/09/22/opinions/unrelenting-horizonlessness-of-covid-world-couldry-schneier/index.html

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Per gentile concessione degli autori; traduzione di FFF Italia.

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