Fare attivismo non vuol dire mettere un #hashtag
di Holiday Phillips
Il 25 maggio, George Floyd è stato ucciso da un poliziotto di Minneapolis che gli ha premuto il ginocchio sul collo per più di otto minuti mentre Floyd ansimava: “Non riesco a respirare”. Il 13 marzo, Breonna Taylor è stata uccisa dalla polizia che ha preso d’assalto il suo appartamento mentre dormiva. Il 25 febbraio, Ahmaud Arbery è stato ucciso in pieno giorno da due uomini bianchi, un poliziotto in pensione e suo figlio. Sono saliti in macchina, lo hanno seguito e gli hanno sparato due volte.
Potrei continuare.
Queste tragedie, che sono solo gli esempi più recenti di una consolidata tradizione di violenze contro gli afroamericani, hanno portato a un’esplosione di visibilità sui social media.
Nei giorni successivi alla morte di Arbery, scorrendo Instagram, ho letto post su post di amici bianchi e influenti che professavano il loro sdegno e la loro incredulità. Esortandoci a #sayhisname (dire il suo nome). I post sono stati inondati da commenti di altre persone (per lo più) bianche, che li ringraziavano per il loro “coraggio” lodandoli per aver “sfidato il potere dicendo la verità”.
Tre mesi dopo quella sparatoria, Gregory McMichael e Travis McMichael sono stati arrestati e accusati di omicidio in quella che è stata annunciata come una vittoria del potere dei social media, un luogo in cui i normali cittadini possono “usare la loro voce” per chiedere giustizia.
Eppure, da donna afroamericana, invece di sentirmi ispirata da questa dimostrazione di solidarietà, mi sono sentita arrabbiata e spaventata. Guardando il mio feed, volevo dire ai miei amici bianchi: “Ora sei qui, ma dove sei gli altri 364 giorni dell’anno in cui l’antirazzismo non fa tendenza? Quando il razzismo non è ben nascosto a distanza di sicurezza al di là dello schermo che hai in mano, ma sta proprio lì davanti al tuo naso?”.
Non voglio negare che la solidarietà espressa pubblicamente possa contribuire a stimolare un cambiamento positivo. Le voci a volte riescono a farsi sentire, e qualche piccola forma di giustizia può anche essere ottenuta come risultato. Ma non dobbiamo nemmeno lasciarci cullare dalla convinzione che questo tipo di solidarietà sia sufficiente a smantellare le condizioni che hanno reso possibile il linciaggio di un afroamericano innocente in pieno giorno. E non dobbiamo lasciare che questo tipo di solidarietà di facciata, che si riduce a degli hashtag, sia l’apice della battaglia per l’uguaglianza.
Che cos’è la solidarietà di facciata?
Per capire la solidarietà di facciata, vediamo prima di tutto cos’è la vera solidarietà. Una persona davvero solidale è qualcuno che appartiene a un gruppo non emarginato che usa il suo privilegio per sostenere attivamente un gruppo emarginato. Egli trasferisce i benefici del suo privilegio a chi ne è privo. La solidarietà di facciata, invece, è quando qualcuno appartenente al gruppo non emarginato professa sostegno e solidarietà verso il gruppo emarginato in un modo che non è utile o che danneggia attivamente il gruppo in questione. Con la solidarietà di facciata di solito chi esprime solidarietà riceve una sorta di ricompensa – sui social media, la virtuale pacca sulla spalla perché si è una “brava persona” o perché si sta dalla “parte giusta”.
Voglio chiarire che non mi esento da questo tipo di comportamento. Io stessa mi sono espressa sul web con fervore sui mali degli allevamenti intensivi, solo per poi, più tardi, quel giorno, prendere di nascosto un pezzo di formaggio dal piatto del mio compagno. (Se non l’ho ordinato io, sono ancora vegana, vero?) Capisco la voglia di dire qualcosa, soprattutto quando la gente ti ricorda che tacere significa essere complici. Ma il problema della solidarietà di facciata non è che di per sé danneggia, ma che fornisce un alibi. Esenta le persone privilegiate dal compiere i sacrifici personali necessari per arrivare nel profondo delle questioni legate al sistema che pretende di affrontare.
Scrivendo #sayhisname, hai fatto la tua parte, giusto? Hai dichiarato pubblicamente di essere contrario al razzismo e quindi puoi toglierlo dalla tua lista delle cose da fare. Sbagliato.
Guardando le storie di Instagram di apparenti alleati bianchi che gridano giustizia, mi si è spezzato il cuore vedendo i loro post immediatamente successivi con immagini di quello che hanno mangiato a pranzo o cose del genere. Questo tipo di solidarietà è effimera. Un fatto passeggero. Un repost. Roba da Instagram. Un gesto arido e fasullo.
Come si riconosce la solidarietà di facciata?
Sui social media ci sono quattro indizi.
- Il post è di solito molto semplice: con poche parole, un’immagine o l’hashtag del momento (sempre secondo l’estetica del proprio stile personale, ovviamente). L’alleanza performativa si rifiuta di affrontare la complessità oltre la superficie, o di dire qualcosa di nuovo.
- Si esprime quasi sempre sotto forma di oltraggio, incredulità o rabbia “per l’ingiustizia”. Ma la tua indignazione non è utile – semmai è un segno del tuo privilegio, che per te il razzismo è ancora sorprendente. Credimi quando ti dico che non è così per i neri, gli indigeni e le persone di colore (la comunità BIPOC: Black, Indigenous, People Of Color) per i quali il razzismo è una realtà quotidiana.
- Questo tipo di solidarietà si guarda bene dal riconoscere qualsiasi responsabilità a livello personale nei confronti di un sistema che ha fornito il contesto per l’ennesima tragedia. E invece pensa di poter individuare un colpevole “esterno” – un poliziotto disonesto o un conservatore senza cuore. Così facendo distingue se stesso (buono) da costoro (i cattivi).
- Forse l’indizio più evidente è che di solito raccoglie elogi, approvazione o ammirazione intorno alla persona che la esprime. Questa è la sua vera linfa vitale.
Se ti riconosci in alcune di queste descrizioni, sappi che ciò non significa che non ti importi della questione, o che sei una persona cattiva, o razzista. Ma solo che sei caduto nella trappola di pensare che il tuo attivismo possa ridursi a un hashtag. Al razzismo insito in questo sistema non importa nulla dei tuoi hashtag e della tua indignazione. Sono otto anni che la gente scrive l’hashtag #blacklivesmatter, eppure ancora i giovani afroamericani vengono uccisi per strada mentre fanno jogging.
È fondamentale rendersi conto che se la tua solidarietà è di facciata, ti stai creando degli alibi per non intraprendere quelle conversazioni difficili e dolorose che sono necessarie per affrontare le cause alla radice. Quelle conversazioni che porteranno effettivamente a un cambiamento. E stai alleviando il tuo senso di colpa con una vuota tattica di difesa dell’attivismo da tastiera, quando ciò che serve davvero fare è sostenere questa causa con le tue azioni.
Cosa puoi fare, allora? Ecco alcuni suggerimenti.
Agisci con il tuo portafoglio
Questa credo sia la cosa più importante che tu, da bianco, possa fare per sostenere le persone BIPOC. Se sei disgustato dai secoli di furti perpetrati dallo Stato delle terre dei neri, degli asiatici e degli indigeni, allora sostieni le aziende di proprietà della comunità BIPOC. Inizia il tuo programma di riparazione del sistema cercando attivamente i prodotti e i servizi che usi regolarmente e trova delle alternative create dalla comunità BIPOC. E se ti spezza il cuore lo sfruttamento delle persone di colore in alcuni dei paesi più poveri del mondo, rifiutati di acquistare oggetti prodotti da quelle aziende nel settore della moda e delle tecnologie che continuano a sfruttare spudoratamente adulti e bambini nel loro processo produttivo.
Affronta le persone nella vita reale
È facile criticare le persone quando si è nascosti dietro una tastiera. Sai cos’è difficile? Affrontare il tuo capo quando confonde tutte le volte i nomi dei tuoi due colleghi indiani, o affrontare il tuo parente razzista quando inizia a parlare di “immigrati che ci rubano il lavoro”. Se non riesci ancora a parlare, va bene, ma prendine atto e impegnati a fare la tua parte in modo che un giorno, presto, tu riesca a farlo.
Informati
È fin troppo facile concentrarsi sulle persone “là fuori” – i cattivi, il KKK, i neonazisti. Quasi tutte le persone ragionevoli credono che queste persone e le loro opinioni siano deplorevoli. Ma poiché sono marginali e in numero ridotto, hanno poco potere e poca influenza sui meccanismi della società.
Sai invece cosa ha un’enorme influenza? L’apatia e il privilegio dei bianchi insiti in questo sistema. E mi dispiace dirlo, ma se sei bianco, non importa quanto tu sia gentile, a meno che tu non stia facendo un serio e costante lavoro personale in favore della causa antirazzista, sei una parte della macchina. Chiedi ai tuoi amici BIPOC di parlarti delle loro esperienze di razzismo e ascolta. Impegnati ad affrontare i tuoi stessi pregiudizi. Leggi libri sulla storia del razzismo nel tuo Paese. (Questa lista di letture è un ottimo punto di partenza).
Fai qualcosa di cui nessuno verrà mai a conoscenza
Come diceva Lil Wayne: “Quelli davvero sgamati si muovono in silenzio..”, cioè si muovono senza dare nell’occhio. Questo non è mai stato più vero che nell’attivismo. A volte il vero attivismo ti richiede di farti avanti e gridare. Ma molto più spesso richiede di svolgere semplici compiti quotidiani che nessuno vedrà mai. Se, riflettendoci, tutto ciò che fai è pubblico, è probabile che tu stia agendo come sostenitore di facciata. Sfida te stesso a fare le cose con calma, come cambiare le tue abitudini di acquisto, usa la tua piattaforma per far sentire le voci della comunità BIPOC, o istruisciti sulla storia del razzismo senza poi dire a tutti quanto sei diventato colto. In questo modo, sai di essere davvero pronto per difendere la causa – e non qualcuno che vuole solo sembrarlo.
Limitarsi a “dire cose” è facile. Sai cos’è difficile? Non comprare gli oggetti che vuoi perché il processo con cui sono creati si basa sulla violenza. Rifiutare un lavoro perché l’azienda impiega lavoro minorile in Africa. Affrontare altri bianchi quando dicono qualcosa di chiaramente razzista. Questo tipo di cose sono difficili. Ma se vuoi essere un vero alleato della causa BIPOC, devi essere disposto a farlo. Chiunque può pubblicare degli hashtag sui social media. E il fatto che questo sia visto come un atto di attivismo è letale.
Quindi questo è un appello. Per tutti noi. Per confrontarci col vero problema. Per capire quanto ci importa veramente. Per capire che se a trarre profitto dal gesto di “solidarietà” siamo più noi di coloro che ne hanno davvero bisogno, c’è qualcosa che non va. Chi sceglie l’attivismo, deve agire. Non c’è più tempo per fare altre scelte.
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Holiday Phillips è una sociologa che si occupa di tematiche legate alla giustizia. La trovi su Instagram e Medium.
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Per gentile concessione dell’autrice. Traduzione a cura di FFF Italia.