di James Dyke, Robert Watson, Wolfgang Knorr, 22 aprile 2021
A volte l’illuminazione arriva come un lampo accecante. I contorni confusi prendono forma e all’improvviso tutto ha senso. Tali momenti rivelatori di solito sono sottesi da processi emergenti molto più lenti. I dubbi nella nostra mente aumentano. Quel senso d’indeterminato, come se le cose non quadrassero, aumenta fino a quando qualcosa scatta. O qualcosa si spezza.
Complessivamente, noi tre autori di questo articolo abbiamo accumulato più di 80 anni di ragionamenti dedicati al cambiamento climatico. Perché ci è voluto così tanto prima di parlare del rischio evidente che rappresenta il concetto di “zero netto”? In nostra difesa, va detto che la premessa di “net zero” è ingannevolmente semplice – e dobbiamo ammettere che ci ha ingannati.
Le minacce del cambiamento climatico sono il risultato diretto della presenza di troppa CO2 in atmosfera. Ne consegue che dobbiamo smettere di emetterne altra, e perfino rimuoverne una parte. Questa idea è centrale negli attuali piani mondiali per schivare la catastrofe. Di fatti, è oggetto di tante soluzioni proposte: dal piantare miliardi d’alberi a sofisticate tecnologie che catturino l’anidride carbonica direttamente dall’aria.
L’attuale consenso è che se puntassimo su queste e altre tecniche di “rimozione del biossido di carbonio” e allo stesso tempo riducessimo il nostro uso di combustibili fossili, potremmo fermare il riscaldamento globale più velocemente, e sperare così di raggiungere lo “zero netto” intorno alla metà di questo secolo. Quello è il punto in cui qualsiasi residua emissione di gas serra è compensata da tecnologie che li rimuove dall’atmosfera.
È una gran bella idea, in linea di principio. Sfortunatamente, in realtà aiuta a perpetuare quella fede riposta in una salvezza tecnologica, riducendo così la percezione dell’urgenza con cui è necessario abbattere le emissioni adesso.
Siamo arrivati alla dolorosa convinzione che l’idea di zero netto abbia fornito l’alibi all’approccio “intanto bruciare, poi un giorno pagare”, un approccio spudoratamente spericolato, grazie al quale le emissioni di CO2 continuano a salire. Questo approccio sta accelerando la distruzione del mondo naturale, con continui aumenti di deforestazione e sempre maggior rischio di ulteriore devastazione in futuro.
Per capire come siamo arrivati a questo, come l’umanità abbia scommesso la sopravvivenza della propria civiltà su nient’altro che promesse di soluzioni future, dobbiamo tornare alla fine degli anni 80, quando il cambiamento climatico irruppe sulla scena internazionale.
I passi verso “net-zero”
Il 22 giugno 1988, James Hansen era l’amministratore del Goddard Institute for Space Studies della Nasa, un incarico prestigioso, ma del tutto sconosciuto fuori dal mondo accademico.
Il giorno dopo, diventò il climatologo più famoso al mondo. Questo successe grazie alla sua testimonianza davanti al congresso degli Stati Uniti, in cui presentò minuziose prove che il clima della Terra si stava riscaldando e che gli umani ne erano la causa primaria: “Abbiamo misurato l’effetto serra, e sta già cambiando il nostro clima.”
Se avessimo agito in base alla testimonianza di Hansen allora, avremmo potuto decarbonizzare le nostre società ad un tasso di circa 2% ogni anno, mantenendo il 67% di chances di contenere il riscaldamento entro +1.5°C. Sarebbe stata una sfida molto importante, ma all’epoca sarebbe consistita semplicemente nello smettere di accelerare l’uso di combustibili fossili, e nel concordare una equa spartizione delle emissioni future.
Quattro anni dopo, ci furono spiragli promettenti di passare al concreto. Durante l’Earth Summit di Rio de Janeiro del 1992, tutte le nazioni accettarono di limitare le concentrazioni di gas serra per garantire che non causassero pericolose interferenze nel clima. Nel 1997 al Summit di Kyoto si tentò di iniziare a mettere in pratica l’ambizione concordata. Ma con ogni passare degli anni, l’obiettivo iniziale di salvaguardia si allontanò sempre più, visto il continuo aumento dell’uso dei combustibili fossili.
È in quel periodo che sono stati sviluppati i primi modelli informatici capaci di collegare le emissioni di gas serra agli impatti di diversi settori dell’economia. Questi modelli ibridi climatico-economici si chiamano modelli di valutazione integrata IAM (Integrated Assessment Models). Questo strumento ha consentito agli studiosi di collegare le attività economiche con il clima, ad esempio esplorando come i cambiamenti negli investimenti e nella tecnologia potessero portare a cambiamenti nelle emissioni di gas serra.
Sembravano un prodigio: si potevano testare le misure in una simulazione al computer prima di doverle implementare, evitando all’umanità il rischio di costose sperimentazioni. Questi modelli divennero presto il principale strumento di indirizzo per formulare le misure per la salvaguardia del clima. Una centralità che conservano tutt’oggi.
Sfortunatamente, hanno anche permesso di eliminare dal processo la necessaria riflessione critica profonda. Questi modelli rappresentano la società come se consistesse solo in una rete di acquirenti e venditori ideali e impassibili, e quindi ignorano le complesse realtà sociali e politiche, o anche l’impatto del cambiamento climatico stesso. La loro implicita promessa è che gli approcci basati sul mercato funzioneranno sempre. Ciò significa che le discussioni sulle politiche furono limitate a quelle più convenienti per i politici: cambi incrementali di legislazione e norme tributarie.
Nel periodo in cui questi modelli furono sviluppati per la prima volta, nel corso degli sforzi per garantirsi l’azione sul clima da parte degli Stati Uniti, gli fu consentito di contare le foreste del paese come depositi di carbonio. Gli Stati Uniti sostenevano che una buona gestione delle foreste avrebbe permesso loro di depositare grandi quantità di CO2 negli alberi e nel suolo, quantità che andavano dunque sottratte dai loro obblighi di limitare il consumo di carbone, petrolio e gas. Alla fine, gli Stati Uniti la spuntarono. (Per triste ironia: quelle concessioni si rivelarono vane, dato che il Senato degli Stati Uniti non ratificò mai l’accordo.)
Ipotizzare un futuro con più alberi permetteva in effetti di considerare immediatamente compensato il consumo di un quantitativo equivalente di carbone, petrolio e gas. Così come era facile con questi modelli elaborare scenari in cui l’anidride carbonica in atmosfera calava quanto si voleva, scenari sempre più sofisticati, ma che riducevano il senso d’urgenza per la riduzione dell’uso di combustibili fossili. Con l’inclusione dei carbon-sink, i depositi naturali di carbonio, all’interno dei modelli clima-economici, si è scoperchiato un vaso di Pandora.
Ed è qui che troviamo la genesi delle politiche “zero netto” di oggi.
Detto ciò, a metà degli anni 90 gran parte dell’attenzione era rivolta all’aumento dell’efficienza energetica e alla conversione energetica (come la transizione dal carbone al gas in UK) e al potenziale che aveva l’energia nucleare di fornire grandi quantità di energia priva di emissioni. La speranza era che queste innovazioni avrebbero invertito velocemente la curva d’aumento delle emissioni da combustibili fossili.
Ma verso l’inizio del nuovo millennio era ormai chiaro che queste speranze erano infondate. Viste le loro premesse basate sul cambiamento per incrementi, era diventato sempre più difficile per i modelli economico-climatici individuare percorsi praticabili per evitare i rischi del cambiamento climatico. Come risposta, nei modelli furono incluse sempre più tipologie di cattura e stoccaggio di CO2, tecnologie che rimuovessero il biossido di carbonio prodotto dalle emissioni delle centrali a carbone, e poi stoccassero quella CO2 catturata in profondità sottoterra, a lunga scadenza.
Questo fu dimostrato possibile in principio: la CO2 compressa è stata separata dai gas fossili e poi iniettata sotto terra in una serie di progetti a partire dagli anni 70. Questi schemi di recupero petrolifero sono stati progettati per pompare i gas nei pozzi di petrolio, così da spingere il greggio verso le trivelle e quindi consentirne una maggiore estrazione – petrolio che verrebbe poi bruciato, rilasciando ancor più anidride carbonica in atmosfera.
La cattura e stoccaggio di CO2 offrì la svolta: invece di usare l’anidride carbonica per estrarre più petrolio, il gas sarebbe invece rimasto sotto terra, risultando così rimosso dall’atmosfera. Da questa promessa rivoluzione tecnologica nacque il concetto di carbone “eco-compatibile”, che garantiva ulteriore ricorso ai combustibili fossili. Ma ben prima che esistesse nel concreto anche solo uno di questi progetti, la procedura finì per essere già inclusa nei modelli climatico-economici. E così, la mera prospettiva della potenziale cattura e stoccaggio di CO2 fornì ai politici una via d’uscita dal dover fare i necessari, urgenti tagli alle emissioni di gas serra.
La fortuna dello “zero netto”
Quando la comunità internazionale concentrata sul cambiamento climatico si riunì a Copenhagen nel 2009, fu chiaro a tutti che la cattura e lo stoccaggio di carbonio non sarebbe stata una misura sufficiente per due motivi.
Innanzitutto, ancora non esisteva. Non c’era nessun’impianto di cattura e stoccaggio del carbonio attiva in nessuna centrale elettrica a carbone, e nessuna prospettiva che la tecnologia avrebbe avuto qualche impatto sull’aumento delle emissioni dovute al crescente uso di carbone nel prossimo futuro.
L’ostacolo maggiore all’implementazione era essenzialmente il costo. La motivazione per bruciare grandi quantità di carbone è che genera elettricità relativamente economica. Installare a posteriori questi depuratori di anidride carbonica, costruire le infrastrutture per trasportare il carbonio catturato, e sviluppare siti di stoccaggio geologico adatti richiedeva enormi somme di denaro. Di conseguenza, l’unica applicazione della cattura di carbonio attualmente attiva allora, come ancora oggi, è l’utilizzo del gas raccolto per aumentare l’estrazione di petrolio. Oltre ad un unico impianto prova, non è mai stata effettuata alcuna cattura di CO2 dalla ciminiera di centrali elettriche a carbone, in cui il carbonio catturato sia poi finito stoccato sottoterra.
Di pari importanza, nel 2009 era ormai chiaro che non sarebbero state possibili neanche le graduali riduzioni reclamate dai politici. Una circostanza che neanche l’esistenza di sistemi di cattura e stoccaggio di carbonio funzionanti avrebbe cambiato. La quantità di CO2 aggiunta all’atmosfera ogni anno significava che l’umanità stava rapidamente esaurendo il tempo a disposizione.
Con le speranze di una soluzione per la crisi climatica che così svanivano nuovamente, serviva una nuova “bacchetta magica”. Una tecnologia non solo per rallentare la crescita di concentrazione di anidride carbonica in atmosfera, ma che riuscisse proprio a invertirla. Come risposta, la comunità dei modellatori climatico-economici – che già includevano i depositi naturali di carbonio e lo stoccaggio geologico di carbonio nei loro modelli – scelse come “soluzione” la combinazione delle due.
È così che emerse come nuova tecnologia-salvezza la Bioenergy Carbon Capture and Storage, o BECCS. Bruciando biomassa “sostituibile”, come legno, coltivazioni e scarti di agricoltura al posto del carbone nelle centrali elettriche, e poi catturando l’anidride carbonica proveniente dalle ciminiere delle centrali elettriche e sedimentandola sottoterra, la BECCS prometteva di produrre elettricità, e allo stesso tempo rimuovere l’anidride carbonica dall’atmosfera. Contando sulla cattura di carbone che avviene con la crescita di biomasse, piantando alberi e altre colture a scopo di bioenergia, e stoccando poi la CO2 rilasciata quando vengono bruciati, si sarebbe riuscito a rimuovere altro carbonio all’atmosfera.
Armati di questa nuova soluzione la comunità internazionale si rischierò, dopo i ripetuti fallimenti, per tentare nuovamente di interrompere la nostra pericolosa interferenza con il clima. E così si arrivò la cruciale conferenza per il clima di Parigi.
Un’alba illusoria a Parigi
Quando il segretario generale dell’ONU portò a conclusione la 21esima conferenza sul cambiamento climatico, un grande grido giunse dalla folla. Le persone scattarono in piedi, gli sconosciuti si abbracciarono, occhi rossi dalla mancanza di sonno versarono lacrime di sollievo.
Le emozioni in mostra il 13 dicembre 2015 non erano solo per le telecamere. Dopo settimane di estenuanti negoziazioni di alto livello a Parigi si era finalmente arrivati a una svolta. Contro ogni aspettativa, dopo decenni di false partenze e fallimenti, la comunità internazionale aveva finalmente concordato di fare quello che serviva per contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, preferibilmente entro 1,5°C, rispetto ai livelli pre-industriali.
L’Accordo di Parigi fu una clamorosa vittoria per coloro più a rischio dal cambiamento climatico. Anche le ricche nazioni industrializzate verranno sempre più colpite dall’aumento delle temperature globali. Ma sono gli stati di isole basse come le Maldive e le Isole Marshall ad essere a rischio esistenziale imminente. Come un successivo Rapporto Speciale dell’ONU ha chiarito, in caso dell’insuccesso a contenere il riscaldamento globale entro quel 1,5°C previsto dall’Accordo di Parigi, il numero di vite perse a causa di tempeste, incendi, ondate di calore, carestie e inondazioni sempre più intense, aumenterebbe di moltissimo.
Ma sotto la superficie vi era un altro sentimento che serpeggiava fra i delegati quel 13 di dicembre. Era, e resta tutt’oggi, da cercare col lanternino lo scienziato che all’epoca pensava che l’Accordo di Parigi fosse realizzabile. Da allora alcuni scienziati hanno dichiarato che l’Accordo di Parigi era “chiaramente importante per la giustizia climatica, ma irrealizzabile” e che è stato “un vero shock: nessuno pensava che limitare il riscaldamento a 1,5°C fosse cosa fattibile”. Un componente accademico senior dell’IPCC concluse che anziché al contenimento del riscaldamento entro 1,5°C, eravamo destinati ad oltre 3°C di riscaldamento entro la fine del secolo.
Ma invece di affrontare questi nostri dubbi, noi scienziati decidemmo di architettare scenari di fantasia sempre più elaborati in cui saremmo stati salvi. Il prezzo da pagare per la nostra codardia: dover tenere le nostre bocche chiuse riguardo alla crescente assurdità di quanta rimozione di CO2 sarebbe stata necessaria su scala globale.
Allora protagonista erano le BECCS, che rappresentavano l’unico modo in cui i modelli riuscivano a ipotizzare scenari che fossero in accordo con l’Accordo di Parigi. Anziché livellarsi, dal 1992 le emissioni globali di anidride carbonica erano aumentate di circa il 60%.
Ahimè, le BECCS, proprio come tutte le precedenti soluzioni, erano troppo belle per essere vere.
In tutti gli scenari elaborati dall’IPCC con una probabilità del 66% o migliore di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5°C, le BECCS avrebbero dovuto rimuove 12 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno. Le BECCS su una scala tale richiederebbero enormi piani di piantumazione d’alberi e massicce coltivazioni per bioenergia.
La Terra di certo ha bisogno di più alberi. L’umanità ne ha abbattuti circa 3 miliardi da quando abbiamo dato inizio all’agricoltura, circa 13 mila anni fa. Ma anziché strategie che consentono agli ecosistemi di riprendersi dagli impatti umani e alle foreste di ricrescere, per BECCS generalmente si intendono apposite piantagioni su scala industriale che vengono regolarmente abbattute o raccolte per ottenere bioenergia, non a carbonio stoccato nei tronchi, nelle radici e nel suolo delle foreste.
Attualmente, i due biocarburanti più efficienti sono il bioetanolo da canna da zucchero e il biodiesel da olio di palma – entrambi coltivati nei tropici. Infinite file di monocolture di questi alberi dalla crescita veloce, così come le altre coltivazioni per bioenergia da raccolto frequente, devastano la biodiversità.
È stato stimato che queste BECCS richiederebbero tra 0,3 e 1,2 miliardi di ettari di terra. Questo è fra il 25 e l’80% di tutta la terra attualmente coltivata. Come potrebbe mai realizzarsi mentre, a metà del secolo, nutriremo 8-10 miliardi di persone nel mondo, e senza distruggere la vegetazione nativa e la biodiversità?
Crescere miliardi di alberi consumerebbe vasti volumi di acqua – in alcune zone dove le persone già soffrono la sete. Aumentare la superficie delle foreste nelle latitudini a Nord può portare ad un effetto riscaldante, perché sostituire prati e campi con foreste significa che la superficie della terra diventa più scura. Le superfici più scure assorbono più energia dal sole e quindi le temperature aumentano. Concentrarsi a sviluppare vaste piantagioni nelle nazioni tropicali più povere comporta il rischio concreto che le persone si vedano sfollate dalle loro terre.
E spesso si dimentica che gli alberi e il suolo in generale assorbono e conservano già grandi quantità di carbonio attraverso la capacità del suolo di fare da carbon-sink, deposito naturale di carbonio. Interferire con questa capacità rischia sia da un lato di distruggerla, e dall’altro offrire occasione per conteggi doppi del carbonio.
Via via che questi impatti si sono chiariti meglio, il senso di ottimismo intorno alle BECCS sta svanendo.
Sogni irrealizzabili
A causa della scoraggiante constatazione di quanto difficile sarebbe stato attenersi all’Accordo di Parigi alla luce delle emissioni in continua crescita e del limitato potenziale delle BECCS, comparve un neologismo chiave nei giri strategici: lo “scenario di sforamento”. Questo concedeva un aumento delle temperature oltre 1,5°C per un frangente, per poi prevedere di riportarle giù tramite una serie di soluzioni di rimozione di CO2 entro la fine del secolo. Questo comporta che “zero netto” in realtà significhi “a impatto di carbonio negativo”. Entro pochi decenni, dovremo trasformare la nostra civiltà da una che emette 40 miliardi di tonnellate di anidride carbonica in atmosfera ogni anno, a una che crea una rimozione netta di decine di miliardi.
Piantare alberi in massa, per bioenergia o come un tentativo di compensazione, è stato l’ultimo tentativo di temporeggiare sui tagli all’uso di combustibili fossili. Ma la necessità sempre crescente di rimozione di carbonio richiedeva ancora di più. Questo è il motivo per cui la cattura diretta dall’aria, al momento pubblicizzata da alcuni come la più promettente tecnologia disponibile, ha cominciato a tenere banco. È solitamente meno impattante sull’ecosistema perché richiede molto meno terra per funzionare rispetto alle BECCS, inclusa quella necessaria per alimentarla usando il energia eolica o da pannelli solari.
Purtroppo, è convinzione diffusa che la cattura diretta dall’aria, a causa dei suoi costi esorbitanti e del suo fabbisogno energetico, se mai divenisse fattibile impiegarla su larga scala, non potrebbe competere con le BECCS e il loro vorace appetito di terreno agricolo.
Forse ora emerge più chiaramente dove siamo diretti, in tutto ciò. Non appena il miraggio di ogni magica soluzione tecnica svanisce, un’altra nuova alternativa ugualmente irrealizzabile compare e ne prende il posto. La prossima è già all’orizzonte – ed è ancor più spaventosa. Non appena realizzeremo che lo zero netto non avverrà per tempo, o non avverrà mai, ecco che la geoingegneria – gli interventi di alterazione intenzionale e su larga scala del sistema climatico della Terra – sarà probabilmente invocata come la soluzione per limitare l’aumento delle temperature.
Una delle idee di geoingegneria più studiate è la “gestione della radiazione solare” – l’iniezione di milioni di tonnellate di acido solforico in stratosfera, in modo da riflettere una parte dell’energia solare via dalla Terra. È un’idea folle, ma alcuni ricercatori e politici già se ne sono convinti, nonostante gli importanti rischi che comporta. La National Academies of Sciences degli Stati Uniti, ad esempio, ha raccomandato lo stanziamento di 200 milioni di dollari nei prossimi 5 anni per esplorare come la geoingegneria potrebbe essere impiegata e regolata. I finanziamenti e la ricerca in questo settore aumenteranno sicuramente.
Verità difficili
In linea di principio non c’è nulla di sbagliato o pericoloso nelle proposte di rimozione di CO2. Infatti, sviluppare modi di ridurre le concentrazioni di anidride carbonica può risultare un’impresa tremendamente stimolante. Utilizzare la scienza e l’ingegneria per salvare l’umanità dalla catastrofe. Sapere che quel che stai facendo è importante. C’è anche la consapevolezza che la rimozione di carbonio sarà comunque necessaria per compensare alcune delle emissioni da settori come l’aviazione e la produzione di cemento. Ci sarà quindi un qualche limitato ruolo per vari approcci di rimozione della CO2.
I problemi giungono quando si presume che questi possano essere implementati su vasta scala. Questo ha l’effetto di carta bianca per continuare l’imperterrito uso di combustibili fossili, e per l’accelerazione della distruzione degli habitat.
Le tecnologie di riduzione del carbonio e la geoingegneria dovrebbero essere viste come un sedile a espulsione, che allontani l’umanità dal rapido e catastrofico cambiamento ambientale. Proprio come quelli nei jet, dovrebbe essere usato solo come ultimo ricorso. Invece gli strateghi e le imprese sembrano essere già convinte ad utilizzare tecnologie altamente speculative come soluzione per traghettare la nostra civiltà ad una destinazione sostenibile. Ma in realtà non sono altro che favole.
L’unico modo per mettere l’umanità in salvo è di tagliare immediatamente e radicalmente le emissioni di gas serra in un modo socialmente giusto.
Gli studiosi solitamente si vedono come servitori della società. Infatti, molti sono impiegati nei servizi pubblici. Quelli che lavorano all’interfaccia fra scienza del clima e politica lottano disperatamente contro scenari sempre più difficili. Similmente, anche quelli che sostengono lo “zero netto” come un modo di infrangere gli ostacoli che bloccano la reale azione a salvaguardia del clima, lavorano con le migliori intenzioni.
La tragedia è che i loro sforzi collettivi non sono mai stati capaci di scardinare un processo di strategia climatica che consente l’esplorazione solo di una ridotta rosa di scenari.
La maggior parte degli scienziati si sentono chiaramente a disagio a scavalcare la linea invisibile che separa il loro lavoro dalle più ampie preoccupazioni sociali e politiche. Ci sono paure genuine che essere visti come sostenitori a favore o contro certi problemi possa mettere in pericolo la percezione della loro indipendenza. Quello dello scienziato è fra le professioni più fidate in assoluto. È molto difficile costruire la fiducia, ed è molto semplice incrinarla.
Ma c’è un’altra linea invisibile, quella che separa il mantenere l’integrità accademica e l’auto-censura. Come scienziati, ci viene insegnato ad essere scettici, a sottomettere ogni ipotesi a rigorosa prova e controprova. Ma quando si arriva forse alla più grande sfida mai affrontata dall’umanità, spesso mostriamo una pericolosa mancanza di analisi critica.
In privato, gli scienziati esprimono importante scetticismo riguardo all’Accordo di Parigi, le BECCS, gli offset, la geoingegneria e lo zero netto. Tranne alcune note eccezioni, in pubblico siamo silenziosi riguardo al nostro lavoro, facciamo domande per ottenere finanziamenti, pubblichiamo articoli e insegniamo. Il percorso verso il cambiamento climatico catastrofico è lastricato di studi di fattibilità e valutazioni di impatto.
Invece di riconoscere la gravità della nostra situazione, continuiamo a partecipare al miraggio dello zero netto. Cosa faremo quando la realtà ci schiaffeggerà? Cosa diremo ai nostri amici e cari riguardo alla nostra mancata presa di parola, per tempo?
È giunto il momento di dar voce alle nostre paure ed essere onesti con la società. Le attuali politiche di “zero netto” non terranno il riscaldamento entro 1,5°C perché non sono mai state intese per farlo. Sono state – e sono ancora – guidate da una necessità di proteggere il business as usual, e non il clima. Se vogliamo tenere le persone al sicuro, allora servono adesso importanti e duraturi tagli alle emissioni di CO2 che devono avvenire adesso. Questa è la prova del nove da applicare a tutte le politiche climatiche. Il tempo per illudersi è finito.
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James Dyke – Senior Lecturer in Sistemi Globali, Università di Exeter, UK
Robert Watson – Emeritus Professor in Scienza dell’Ambiente, Università di East Anglia, UK
Wolfgang Knorr – Senior Research Scientist, Geografia Fisica e Scienze degli Ecosistemi, Università di Lund, Svezia