Obsolescenza Programmata: i danni dell’Economia Lineare

OBSOLESCENZA PROGRAMMATA

Da quando avete acquistato il vostro smartphone il conto alla rovescia è già iniziato. Per quanto tempo potrò usarlo prima che diventi obsoleto od inutilizzabile?
A questa domanda c’è una risposta incredibilmente precisa: 2/3 anni. Ormai la quasi totalità dei device elettronici di consumo quotidiano sono progettati per durare una quantità di tempo stabilita.

Questa pratica, chiamata obsolescenza programmata, è una strategia commerciale con l’obiettivo di limitare il ciclo di vita di un prodotto, spingendo così il consumatore a comprare prima del tempo il modello nuovo.
Oggi questa strategia è studiata da progettisti e ingegneri i quali apprendono come creare prodotti per un mercato dominato da un solo obiettivo: acquistare frequentemente.

Se da un lato tale strategia risulta vantaggiosa per le industrie e l’economia, dall’altro si limita la libertà personale dei consumatori di scegliere la riparazione, o il diritto ad avere un prodotto durevole, per non parlare degli effetti negativi sull’ambiente in termini di forte impatto sul consumo di materie prime necessarie alla nuova produzione e sullo smaltimento di quei beni considerati, appunto, obsoleti.

NON SOLO ELETTRONICA

L’obsolescenza programmata non colpisce solo il comparto dell’elettronica ma tutte le categorie di mercato merceologico.
Già negli anni ’20 una lobby dei maggiori produttori di lampadine dell’epoca, unita sotto il nome di Cartello Phoebus, si è accordata per ridurre il ciclo di vita di una lampadina da 2500 ore a 1000. 
Quando Dupont inventò le calze di nylon nel 1940, i test vennero  effettuati su mogli e figlie degli ingegneri. 
Il nylon creato per le calze era molto resistente e duraturo, e da li a poco si accorsero che quel modello di business era poco sostenibile per l’azienda. Gli ingegneri dovettero indebolire la resistenza delle calze per incentivare l’acquisto e la produzione.

PROGRAMMATA O PERCEPITA?

Come abbiamo visto l’obsolescenza programmata parte già dalla progettazione del prodotto, dove si stabilisce il tempo in cui l’oggetto è utilizzabile. In questo caso si progettano i singoli componenti in modo che si deteriorino e non possano essere più riparati, o la riparazione si renda insostenibile per il consumatore di modo da invogliarlo a sostituire direttamente l’intero prodotto per mancanza di pezzi di ricambio o per l’eccessiva onerosità della componentistica singola. In alternativa si può anche influire sul software o firmware del device, rendendo il prodotto poco concorrenziale con i nuovi modelli o addirittura diminuendone volontariamente le prestazioni.

L’obsolescenza percepita, al contrario, agisce in modo diretto sullo stato d’animo del consumatore ed è dettata non tanto dall’effettiva usura del prodotto quanto dal desiderio di possedere l’ultimo modello sul mercato, a seconda di mode, tendenze, dalla pubblicità e più in generale dal mondo della comunicazione.
Il designer statunitense Brooks Stevens lo definì così: “l’instillare nell’acquirente il desiderio di comprare qualcosa di appena un po’ più nuovo e un po’ prima di quanto sia necessario”1.

Le uniche differenze con i nuovi prodotti usciti sono quindi presentazione, aspetto, packaging e design.
Questo evento è presente, oltre che nel campo dell’informatica, soprattutto nell’ambiente della moda: nuove tendenze, nuove collezioni, rendono obsoleti molti dei capi comprati anche solo l’anno precedente.
Questa pratica si può applicare in molti settori diversi per aumentare i ricavi di un’azienda produttrice, però in questo modo aumentano sensibilmente anche i rifiuti.

ACQUISTARE DI PIÙ, inquinare DI PIÙ

Cestiniamo oltre 1,5 miliardi di dispositivi all’anno ma pochi vengono effettivamente riciclati2.

Oggi solo il 15% degli smartphone viene recuperato, nonostante sia disponibile per il riutilizzo il 96% dei materiali, inoltre il riciclo di un solo telefono porta un risparmio energetico di 1Kwh.
Per produrre uno smartphone bisogna scavare oltre 30kg di roccia. “Siccome ogni anno vengono venduti circa un miliardo e mezzo di nuovi smartphone in tutto il mondo, stiamo parlando di 45 milioni di tonnellate per estrarre in media 36 tonnellate d’oro, 375 di argento, 13,5 di palladio, 13.500 di rame e 5.250 di cobalto. La cui quasi totalità viene estratta soprattutto in Africa e Cina, spesso senza alcuna regola e quindi con gravi danni per l’ecosistema naturale.”3

Tra estraziome, lavorazione di materiali, produzione dei componenti, montaggio e distribuzione ogni smartphone produce 17Kg di CO24.

Perchè quindi i componenti elettronici difficilmente vengono riciclati? Il problema sostanziale risiede nella complessità degli impianti in grado di smontare e recuperare i componenti a causa della miniaturizzazione degli elementi.

DIRITTO ALLA RIPARAZIONE, A CHE PUNTO SIAMO?

Appare chiaro che l’obsolescenza, elemento cardine dell’attuale modello di sviluppo, comporta conseguenze economiche, culturali, sociali e ambientali.
“Secondo un sondaggio Eurobarometro del 2020, il 79% degli europei ritiene che i produttori dovrebbero essere tenuti a semplificare la riparazione dei dispositivi digitali o la sostituzione dei singoli componenti, mentre il 77% preferirebbe riparare i propri dispositivi anziché sostituirli.”5

Per questo motivi da tempo l’Unione Europea lavora per combattere l’obsolescenza programmata. Entro la fine del 2022 la CE riconoscerà il “diritto alla riparazione” anche per telefoni, computer e tablets, dopo averlo fatto per gli elettrodomestici: per aumentare la vita dei beni si vogliono obbligare i produttori a garantire la disponibilità di pezzi di ricambio, la riparabilità del prodotto e la possibilità di aggiornare componenti o software dei prodotti.
Dovrebbe inoltre promuovere un utilizzo delle risorse più efficiente e sostenibile, la riduzione dei rifiuti e un più ampio utilizzo e riutilizzo dei device.

Gli aggiornamenti delle applicazioni dovrebbero essere reversibili e non dovrebbero ridurre le prestazioni.
Le pratiche che limitano indebitamente il diritto alla riparazione o che portano all’obsolescenza potrebbero essere considerate “pratiche commerciali sleali” e vietate dal diritto UE.
“Tra le richieste dei deputati figurano anche:

  • Incentivi ai consumatori per riparare un prodotto piuttosto che sostituirlo, come l’estensione delle garanzie o la fornitura di un dispositivo sostitutivo per la durata della riparazione
  • Regole armonizzate sulle informazioni ai consumatori, compresi “punteggi di riparazione”, durata di vita stimata, pezzi di ricambio, servizi di riparazione e disponibilità di aggiornamenti software
  • Strumenti di etichettatura intelligente come i codici QR
  • Un meccanismo di responsabilità congiunta tra produttore e venditore in caso di non conformità dei prodotti
  • Requisiti di durabilità e riparazione inclusi in una futura direttiva sulla progettazione ecocompatibile”6

Un altro strumento per combattere l’obsolescenza programmata è l’indice di reparabilità: un vero e proprio indicatore, presente nelle etichette dei dispositivi elettronici, con l’obiettivo di informare e sensibilizzare i consumatori.
Tale indice permette di sapere se l’oggetto che stiamo per acquistare è facile ed economico da riparare oppure no.
L’indicatore è il risultato della media delle valutazioni di 5 criteri di un prodotto:

  • Documentazione Tecnica
  • Facilità di assemblaggio
  • Disponibilità di pezzi di ricambio
  • Prezzo dei componenti
  • Aspetti specifici del prodotto

Il produttore assegna un punteggio da 1 a 10 per ciascun criterio secondo griglie di valutazione definite dall’ex Ministero Della Transizione Ecologica.

È possibile trovare indici di vari prodotti qui.

LONTANI DALLA RISOLUZIONE

Il diritto alla riparazione si applica, dunque, a tutti i prodotti? Purtroppo no. Al momento questo nuovo regolamento europeo esclude smartphone e laptop, device che vengono usati quotidianamente ed inclini alla sostituzione.
Le tempistiche costituiscono un ulteriore problema: i produttori hanno fino a 15 giorni lavorativi di tempo per reperire le parti di ricambio, periodo eccessivo per bei essenziali come grandi elettrodomestici.
Ai produttori viene anche lasciata la possibilità di aggregare alcune parti dell’elettrodomestico invece che vendere il singolo pezzo separatamente, andando ad incidere sui costi.
A causa di queste criticità si ritiene che il problema sia ben lontano dall’essere risolto, nonostante i passi avanti.

Ci sono però alcuni esempi virtuosi di associazioni e singoli cittadini che mettono a disposizione le loro competenze per provare a ridare vita a qualsiasi dispositivo elettronico. Un esempio è quello dei restarters, una rete di persone che organizza eventi nei quali le menti si uniscono per tentare riparazioni di diverso tipo o per dare consigli su come farlo autonomamente.

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