di Naomi Klein
Nessuno sa che fine abbia fatto la lettera scritta da Alaa Abdel Fattah che parlava del clima. Tutto quello che sappiamo è questo: Alaa Abdel Fattah, uno dei più noti prigionieri politici egiziani, l’ha scritta durante uno sciopero della fame nella sua cella all’interno del carcere del Cairo. Lui stesso ha spiegato in seguito che “parlava del riscaldamento globale a causa delle notizie provenienti dal Pakistan”. Era preoccupato delle alluvioni che hanno causato 33 milioni di sfollati e da ciò che questo lasciava presagire sui disastri climatici e sulle future misere risposte dei governi.
Insieme all’hashtag con il suo nome, #freealaa, Abdel Fattah, un intellettuale e lungimirante esperto di tecnologia, è diventato un sinonimo della rivoluzione di piazza Tahrir del 2011, quando una marea di giovani egiziani ha messo fine alla dittatura trentennale di Hosni Mubarak. Negli ultimi dieci anni Alaa Abdel Fattah è stato in prigione quasi senza interruzione, e può mandare e ricevere lettere una volta alla settimana. All’inizio di quest’anno alcuni dei suoi scritti sono stati pubblicati nel libro Non siete stati ancora sconfitti.
La famiglia di Alaa Abdel Fattah e i suoi amici vivono aspettando queste lettere.
In particolare dal 2 aprile, quando Abdel Fattah ha avviato uno sciopero della fame bevendo solo acqua e sale, per poi cominciare ad assumere cento calorie al giorno (al corpo ne servono duemila). Lo sciopero della fame è una protesta contro la sua prigionia e l’accusa di “diffusione di false notizie”, basata sul fatto di aver condiviso un post su Facebook che riguardava la tortura di un altro detenuto.
Parole dal carcere
Tutti sanno in realtà che la sua detenzione serve a mandare un avvertimento a ogni nuova generazione rivoluzionaria piena di sogni democratici. Con il suo sciopero della fame, Abdel Fattah cerca di fare pressione sui suoi carcerieri per ottenere importanti concessioni come, per esempio, l’accesso al consolato britannico. La madre, Laila Soueif, è nata nel Regno Unito e così alla fine del 2021 lui ha ottenuto la cittadinanza britannica. Le autorità respingono le sue richieste, per questo Abdel Fattah continua a deperire. “È diventato uno scheletro ma ha la mente lucida”, ha detto recentemente sua sorella Mona Seif.
Più va avanti lo sciopero della fame più diventano preziose le sue lettere settimanali. Per la famiglia sono una prova della sua sopravvivenza. Eppure, la lettera in cui parlava della crisi climatica non è mai stata recapitata alla madre, lei stessa intellettuale e attivista per la difesa dei diritti umani. Forse, ha ipotizzato Alaa nella lettera successiva, una guardia ha “versato del caffè sulla lettera”. Più verosimilmente, gli argomenti della lettera sono stati censurati perché riguardavano “l’alta politica”, anche se Alaa Abdel Fattah afferma di essere stato molto attento a non nominare il governo egiziano o “l’imminente conferenza” per il clima.
Per questo la lettera andata persa è importante: c’è qualcosa di incredibilmente commovente nel fatto che Alaa Abdel Fattah – nonostante i dieci anni d’ingiustizie subite – sia seduto in una cella e pensi al riscaldamento del pianeta. Sta lentamente morendo di fame, eppure si preoccupa per le alluvioni in Pakistan, l’estremismo in India, il crollo della valuta nel Regno Unito, la corsa elettorale di Lula in Brasile, tutti argomenti che ha affrontato nelle lettere che la sua famiglia mi ha mostrato.
Un’atmosfera di paura
C’è anche qualcosa di vergognoso in questa situazione, che potrebbe dare da pensare a tutti quelli che stanno andando a Sharm el Sheikh, perché mentre Alaa Abdel Fattah pensa al mondo, non si sa se quella parte di mondo che sta per arrivare al summit stia pensando a lui o agli oltre 60mila prigionieri politici rinchiusi in Egitto, dove diverse forme di tortura sono praticate come in una “catena di montaggio”. Né è chiaro se qualcuno pensi agli attivisti egiziani impegnati per i diritti umani e il clima che insieme a importanti giornalisti e accademici hanno subìto abusi, sono stati spiati, non possono viaggiare, in una situazione che Human rights watch definisce di “generale paura” e “repressione della società civile.”
Il regime egiziano è impaziente di celebrare i propri “giovani leader” attenti alle questioni climatiche, portandoli come esempio di speranza nella battaglia contro il riscaldamento globale (molti governi doppiogiochisti usano i giovani attivisti per nascondere la propria mancanza di azione). Ma è difficile non pensare ai coraggiosi leader della primavera araba: molti di loro sono invecchiati precocemente a causa di un decennio di violenze e abusi commessi da un sistema ampiamente sostenuto da aiuti militari delle potenze occidentali, in particolare degli Stati Uniti. È come se quegli attivisti fossero stati sostituiti con dei modelli nuovi e meno problematici.
“Sono il fantasma della primavera passata”, ha scritto di se stesso Alaa Abdel Fattah nel 2019. Quel fantasma perseguiterà il summit. La domanda silenziosa che ci pone è difficile: se la solidarietà internazionale è troppo debole per salvare Alaa Abdel Fattah — un simbolo dei sogni di libertà della sua generazione — che speranze abbiamo di salvare il nostro pianeta?
Mohammed Rafi Arefin, professore associato di geografia all’università della British Columbia, ha compiuto delle ricerche sulle politiche ambientali e urbane in Egitto. Arefin afferma che “ogni vertice presenta un complesso equilibrio di costi e benefici”. Tra gli aspetti negativi ci sono l’anidride carbonica immessa nell’atmosfera dai delegati che viaggiano verso il summit; i costi di due settimane di albergo (giudicati spesso eccessivi dalle associazioni di attivisti); e anche la manna di pubbliche relazioni che il governo ospitante può intrattenere, presentandosi immancabilmente come un campione dell’ecologia, a dispetto di ciò che prova il contrario.
Il lato positivo è il fatto che per due settimane, a novembre, la crisi climatica sarà sulle prime pagine dei giornali, producendo un’eco mediatica e dando spazio alle voci di chi è in prima linea dall’Amazzonia alle isole Tuvalu. Inoltre ci sono la rete internazionale e la solidarietà che nascono quando gli attivisti locali organizzano i controvertici e i “tour tossici” per mostrare la realtà dietro alla strategia di greenwashing (ambientalismo di facciata) messa in campo dal loro governo per sembrare attento all’ambiente. Ovviamente ci sono anche gli accordi negoziati e le promesse di fondi ai paesi più poveri e più colpiti dalla crisi. Ma si tratta di accordi e promesse non vincolanti che, come ha detto in modo memorabile Greta Thunberg, sono poco più di un “bla, bla, bla”.
Questo summit sta andando ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia
Con il vertice egiziano, sostiene Arefin, “i calcoli di costi e benefici sono cambiati, l’equilibrio non regge più”. C’è ancora il lato negativo (l’anidride carbonica, i costi). Ma in aggiunta il governo ospitante – che potrà vantarsi di essere verde – non è la solita democrazia liberale e doppiogiochista. “È uno dei regimi più repressivi nella storia dell’Egitto”, afferma Arefin. Un governo, guidato dal generale Abdel Fattah al Sisi, che ha preso il potere con un colpo di stato militare nel 2013 (e che da allora lo ha mantenuto attraverso delle elezioni farsa). Secondo le organizzazioni per i diritti umani è uno dei regimi più più brutali e repressivi al mondo: in meno di dieci anni ha costruito più di venti nuove prigioni.
Ovviamente non è possibile rendersi conto di questo aspetto stando alla campagna d’immagine che l’Egitto ha messo in atto in vista del vertice. Un video promozionale sul sito ufficiale della Cop27 accoglie i delegati nella “città verde” di Sharm el Sheik e mostra dei giovani attori – tra cui uomini con barbe trasandate e collanine a impersonare degli ambientalisti – che usano cannucce di carta e contenitori alimentari biodegradabili mentre si fanno dei selfie sulla spiaggia, si godono delle docce all’aperto, imparano a fare immersioni e guidano dei veicoli elettrici nel deserto per poi cavalcare dei cammelli.
Guardando il video, la cosa che mi ha colpito è che Al Sisi abbia deciso di usare il summit per mettere in piedi una specie di reality show, in cui degli attori “recitano” la parte degli attivisti e hanno un aspetto sorprendentemente simile a coloro che stanno subendo torture all’interno del crescente arcipelago carcerario egiziano. Quindi aggiungiamo questo aspetto alla lista dei lati negativi: questo summit sta andando ben oltre il greenwashing di uno stato inquinante: è il greenwashing di uno stato di polizia.
Le comunità e le organizzazioni egiziane più colpite dalle conseguenze dei cambiamenti climatici non saranno presenti a Sharm el Sheikh. Non ci saranno tour dei luoghi inquinati né vertici alternativi dove la popolazione locale potrebbe mostrare ai delegati internazionali la verità dietro alle bugie del governo. Questo perché l’organizzazione di eventi del genere potrebbe causare l’arresto per diffusione di “false notizie” o per violazione del divieto di protesta.
I delegati internazionali non possono nemmeno avere informazioni dettagliate sull’inquinamento e sul degrado ambientale in Egitto prima del summit perché una legge draconiana del 2019 impone ai ricercatori di chiedere un permesso al governo prima di rilasciare informazioni considerate “politiche” (non sono solo i detenuti a essere imbavagliati: il paese lo è, centinaia di siti web sono bloccati, incluso l’indispensabile ed eternamente minacciato Mada Masr).
Secondo il recente rapporto di Human rights watch (Hrw) i gruppi ambientalisti locali sono stati obbligati a rallentare e ridimensionare le loro ricerche a causa di queste nuove norme, tanto che un “importante gruppo di ricerca ambientale egiziano ha dovuto chiudere perché è diventato impossibile lavorare sul campo”. Nessuno degli ambientalisti intervistati da Hrw sulla censura ha voluto usare il suo vero nome per paura di rappresaglie.
In Egitto coloro che tengono veramente al futuro del pianeta stanno marcendo nelle carceri
Arefin – che prima dell’entrata in vigore di queste leggi aveva condotto delle ricerche approfondite sulla situazione dei rifiuti e sulle alluvioni nelle città egiziane – ha detto che sia lui sia altri importanti accademici e giornalisti “non sono più in grado di fare quel lavoro. I danni ambientali in Egitto avvengono nel silenzio”. Chi infrange le regole e prova ad accendere i riflettori su questi problemi finisce in cella, o peggio.
La sorella di Alaa Abdel Fattah, Mona Seif, ha provato a far rilasciare il fratello e altri prigionieri politici. Ha recentemente scritto su Twitter: “La realtà che la maggior parte di coloro che partecipano alla #Cop27 sceglie di ignorare non è solo che diritti umani e giustizia climatica sono connessi, ma che in paesi come l’Egitto i veri alleati, coloro che tengono veramente al futuro del pianeta, stanno marcendo nelle carceri”.
Quindi, al contrario delle passate edizioni della Cop sul clima, questa non avrà dei partner locali sempre in buona fede. Ci saranno degli egiziani che diranno di rappresentare la “società civile”, e per alcuni di loro è vero. Il problema è che, per quanto ben intenzionati, sono degli attori nel reality show sulla spiaggia creato da Al Sisi. A differenza di quanto di solito previsto dall’Onu, quasi tutti i partner locali sono stati selezionati e approvati dal governo. Il rapporto di Hrw, pubblicato un mese fa, spiega che questi gruppi sono stati invitati a parlare esclusivamente di argomenti “accettabili”.
Cosa è accettabile per il governo? “Raccolta di rifiuti, riciclo, energia rinnovabile, sicurezza alimentare e finanza climatica”. Quali temi sono inaccettabili? “Quelli che sottolineano l’incapacità del governo di proteggere i diritti delle persone dai danni causati dagli interessi delle aziende, tra cui le questioni relative alla sicurezza dell’acqua, all’inquinamento industriale e ai danni ambientali causati dal settore immobiliare, dallo sviluppo turistico e dall’agrobusiness”, afferma il rapporto di Hrw.
Altro argomento scomodo: “L’impatto ambientale del vasto e opaco business del complesso militare egiziano è un argomento particolarmente delicato, così come le infrastrutture ‘nazionali’, per esempio la nuova capitale amministrativa”. Soprattutto meglio non parlare dell’inquinamento della plastica causato dalla Coca-Cola e il suo eccessivo uso di acqua, perché la Coca-Cola è uno degli orgogliosi sponsor del summit.
In sintesi, se vuoi installare pannelli solari o raccogliere spazzatura puoi probabilmente ottenere un badge per andare a Sharm el Sheikh. Ma se vuoi parlare di salute e degli impatti sul clima delle centrali a carbone egiziane o della cementificazione degli ultimi spazi verdi del Cairo, hai più probabilità di ricevere una visita dalla polizia segreta o dal distopico ministro della solidarietà sociale. E se, come egiziano, metti in dubbio la credibilità di Al Sisi di parlare in nome dei poveri e delle popolazioni africane vulnerabili alla crisi climatica, data la fame e la disperazione sempre più profonde del suo stesso popolo, è meglio che tu sia già all’estero, fuori dei confini egiziani.
L’Egitto è sull’orlo del default a causa del debito estero, una situazione esplosiva che potrebbe destabilizzare Al Sisi
Finora, ospitare il vertice si è rivelato a dir poco una manna per Al Sisi, un uomo che secondo le cronache Donald Trump ha definito come “il mio dittatore preferito”. C’è il boom del turismo sulla costa, calato negli ultimi anni, e che il regime spera di promuovere con i suoi video di docce all’aperto e di passeggiate sui cammelli. Ma questo è solo l’inizio. A settembre il British international investment (Bii), finanziato dal governo britannico, ha baldanzosamente fatto sapere che “investirà cento milioni di dollari per supportare le start up locali”. Il British international investment è anche proprietario dell’azienda elettrica Globeleq, che in vista della Cop27 ha annunciato un investimento da undici miliardi di dollari per costruire un impianto di produzione d’idrogeno verde in Egitto. Allo stesso tempo, il Bii ha sottolineato il suo “impegno per rafforzare la partnership con l’Egitto e incrementare il finanziamento di azioni climatiche per supportare la crescita verde egiziana”.
Si tratta dello stesso governo che non ha alzato un dito per il rilascio di Alaa Abdel Fattah, nonostante la sua cittadinanza britannica e il suo sciopero della fame. Sfortunatamente per lui, il suo destino è stato per mesi nelle mani di Liz Truss, la quale prima di diventare un’inetta prima ministra è stata un’inetta ministra degli esteri. Poteva usare alcuni dei miliardi d’investimenti e di aiuti come leva per far rilasciare un suo cittadino ma, chiaramente, aveva altre preoccupazioni (Gillian Keegan, sottosegretaria per l’Africa al ministero degli esteri, ha riferito di aver incontrato per la prima volta l’ambasciatore egiziano nel Regno Unito e di “aver sollevato il caso di Alaa Abdel Fattah”).
Il fallimento della Germania è altrettanto deprimente. Quando la leader dei Verdi Annalena Baerbock è diventata ministra degli esteri nel dicembre 2021, ha annunciato “una nuova politica estera basata sui valori”, una politica che avrebbe dato priorità ai diritti umani e alle preoccupazioni per il clima. La Germania è uno dei maggiori donatori e partner commerciali dell’Egitto, quindi, come il Regno Unito, ha delle carte da giocare. Ma invece di fare pressione per il rispetto dei diritti umani, Baerbock ha fornito ad Al Sisi delle opportunità di propaganda preziose, inclusa la possibilità di presentare insieme, a Berlino, l’incontro Petersberg climate dialogue, lo scorso luglio, dove lo spietato dittatore si è presentato come un leader ambientalista.
E viste le difficoltà causate dalla dipendenza della Germania dal gas russo, l’Egitto si sta proponendo come un fornitore di gas e di idrogeno. Nel frattempo, il gruppo tedesco Siemens mobility ha annunciato un accordo “storico” per diversi miliardi di dollari per costruire treni ad alta velocità in tutto l’Egitto.
L’invio di denaro verde sta arrivando al momento giusto per il regime di Al Sisi. Davanti allo tsunami di crisi globali (inflazione, pandemia, crisi alimentari, aumento del costo della benzina, siccità, debito) in aggiunta alla cattiva gestione e alla corruzione sistemica, l’Egitto è sull’orlo del default a causa del debito estero, una situazione esplosiva che potrebbe destabilizzare Al Sisi, proprio come l’ultima crisi finanziaria ha creato le condizioni per destituire Mubarak. In questo contesto, il vertice sul clima non è solo un’opportunità di pubbliche relazioni, ma un’ancora di salvezza.
Anche se riluttanti ad abbandonare il campo, la maggioranza degli attivisti per il clima ammette che questi vertici producono molto poco in termini di azioni climatiche basate su fondamenti scientifici. Anno dopo anno le emissioni sono aumentate durante le ventisette Cop. Quindi come si fa a sostenere la Cop in Egitto quando l’obiettivo che sarà sicuramente raggiunto è quello dell’arricchimento e del rafforzamento di un regime che andrebbe isolato sotto tutti i punti di vista? Come si chiede Arefin: “A che punto diremo basta?”.
Per mesi gli egiziani in esilio in Europa e negli Stati Uniti hanno pregato le ong di inserire i prigionieri politici del loro paese nell’agenda dei negoziati che hanno preceduto il vertice. Tuttavia, all’argomento non è mai stata data priorità.
Gli è stato detto che questa è una “Cop dell’Africa” (Cop è un acronimo per “Conferenza delle parti”, cioè degli stati che fanno parte della convenzione sul cambiamento climatico dell’Onu). È stato assicurato che questa Cop, la ventisettesima, avrebbe finalmente parlato seriamente di “implementazione” e di “perdite e danni”: un modo per descrivere la speranza che i paesi ricchi e inquinanti paghino il loro debito verso le nazioni povere che, come il Pakistan, hanno contribuito pochissimo alle emissioni di CO2, ma si ritrovano a dover pagare la maggior parte dei costi.
Il sottinteso è che il vertice è troppo serio e troppo importante per essere sviato da quella che apparentemente è una piccola questione nel paese ospitante, dati i suoi eccessi sul piano della violazione dei diritti umani. Ma la Cop27 riuscirà veramente a difendere la giustizia climatica? Porterà energia pulita, trasporti sostenibili e indipendenza alimentare ai poveri? Il vertice affronterà realmente il debito e i risarcimenti climatici, come molti sostengono? Magari.
La necessità di questo tipo di risarcimenti è ovvia, osserva il giornalista, regista e scrittore egiziano Omar Robert Hamilton, in un saggio magistrale (pubblicato nel numero 1484 di Internazionale): “La domanda più difficile è: come progettare un sistema di risarcimenti che non rafforzi i regimi autoritari? Questo dovrebbe essere al centro dei negoziati tra paesi del sud e del nord del mondo alla Cop27. Solo che quelli che negoziano per il sud tendono a essere regimi autoritari con interessi a breve termine ancora più fragili di quelli dei petrolieri”.
In breve, nonostante in alcuni circoli ambientalisti si parli del summit “dell’implementazione”, il vertice in Egitto probabilmente otterrà poco in termini di azione reale per il clima, come tutti gli altri summit in precedenza. Ma ciò non significa che nessuno otterrà nulla: sostenere un regime che tortura, inondandolo di denaro e photo opportunity per ripulirsi l’immagine, fa della Cop27 un regalo sontuoso.
Una logica perversa
Alaa Abdel Fattah è stato a lungo un simbolo della rivoluzione repressa violentemente. Ma con l’avvicinarsi del vertice simboleggia anche qualcos’altro: la mentalità secondo cui esistono questioni “sacrificabili” in nome della lotta per il clima. L’idea che alcuni posti e alcune persone possano essere ignorate, trascurate e cancellate nel nome del “progresso”.
Vediamo questa logica messa in atto quando intere comunità vengono avvelenate per estrarre e raffinare i combustibili fossili. La vediamo quando queste stesse comunità sono nuovamente sacrificate per ottenere degli accordi sul clima che non le proteggono. E ora la stiamo vedendo nel contesto di un vertice climatico internazionale durante il quale i diritti delle persone che vivono nel paese ospitante sono sacrificati e ignorati nel nome del miraggio del “vero progresso” nelle negoziazioni.
C’è ancora tempo per sostenere che la giustizia climatica è impossibile senza la libertà politica
Se il vertice dell’anno scorso a Glasgow è stato un “bla, bla, bla”, il significato di quello di quest’anno, anche prima del suo inizio, è decisamente più minaccioso. Questo vertice è tutto blood, blood, blood (sangue, sangue, sangue). Il sangue dei circa mille manifestanti massacrati dalle forze egiziane per proteggere il potere dell’attuale governante. Il sangue di coloro che continuano a essere assassinati. Il sangue di coloro che sono picchiati nelle strade e torturati nelle prigioni, spesso a morte. Il sangue di persone come Alaa Abdel Fattah.
Potrebbe esserci ancora tempo per cambiare questo copione e per fare in modo che il vertice diventi un riflettore che illumini le connessioni tra l’aumento dell’autoritarismo e il caos climatico in tutto il mondo – per esempio il modo in cui i leader di estrema destra, tra cui l’italiana Giorgia Meloni, per favorire la propria ascesa hanno alimentato la paura nei confronti dei profughi, inclusi coloro che fuggono dalla crisi climatica e come l’Unione europea inonda di denaro leader brutali come Al Sisi per impedire agli africani di raggiungere le loro coste. C’è ancora tempo per sostenere che la giustizia climatica è impossibile senza la libertà politica.
“Diversamente da me, non siete ancora stati sconfitti”, ha scritto Alaa Abdel Fattah nel 2017. Era stato invitato a tenere un discorso a RightsCon, la conferenza annuale sui diritti umani nell’era digitale sponsorizzata da tutte le grandi aziende tecnologiche. La conferenza si stava svolgendo negli Stati Uniti, ma poiché Abdel Fattah era dietro le sbarre nella famigerata prigione di Tora (erano passati quattro anni a quel punto), ha invece inviato una lettera.
È un testo brillante, sull’imperativo di proteggere internet come spazio di creatività, sperimentazione e libertà. Ed è anche una sfida per coloro che non sono (ancora) dietro le sbarre, che hanno la libertà di fare cose come andare alle conferenze per parlare di giustizia, di democrazia e di diritti umani. In quella libertà risiede la responsabilità. Una responsabilità non solo di essere liberi, ma anche di agire liberamente, di usare la libertà nel suo potenziale trasformativo, prima che sia troppo tardi.
Mentre decine di migliaia di delegati della Cop27 relativamente liberi si preparano a volare a Sharm el Sheikh, controllando le temperature medie di novembre (massime di 28 gradi), preparandosi adeguatamente (camicie leggere, sandali, un costume da bagno, perché non si sa mai), le parole di Alaa Abdel Fattah riguardo alla responsabilità che deriva dal non essere stati sconfitti assumono una nuova urgenza. Data l’intensa sorveglianza e le minacce che dovranno affrontare gli egiziani presenti al vertice, come useranno la loro libertà gli stranieri presenti? Come useranno il fatto di non essere stati ancora sconfitti?
Si comporteranno come se l’Egitto fosse solo lo sfondo della conferenza, e non un vero paese dove persone come loro hanno combattuto e sono morte per le stesse libertà e contro gli stessi interessi economici che stanno destabilizzando il nostro clima planetario e politico? O troveranno il modo di portare alcune delle macabre verità delle prigioni egiziane nello sfarzo del centro congressi? Pronunceranno alcuni dei nomi dei prigionieri? Cercheranno le poche organizzazioni della società civile rimaste al Cairo, come quelle che si sono riunite sotto Copcivicspace, e cercheranno il modo di aiutarle?
Alaa Abdel Fattah sarebbe il primo a dire che non servono né pietà né carità. Piuttosto, come internazionalista impegnato e solidale con molte lotte, dal Chiapas alla Palestina, ha fatto appello ai compagni in una battaglia che ha fronti aperti in ogni paese. “Vi tendiamo la mano”, ha scritto nella lettera mandata dalla prigione per il RightsCon. “Non in cerca di potenti alleati, ma perché stiamo affrontando gli stessi problemi globali, e condividiamo valori universali e una forte fiducia nel potere della solidarietà”.
Forze antidemocratiche e fasciste hanno successo in tutto il mondo. In un paese dopo l’altro, le libertà sono tutto d’un tratto precarie o stanno sparendo. Tutto questo è connesso. Le ondate politiche si muovono oltre i confini, nel bene e nel male, motivo per cui la solidarietà internazionale non può mai essere sacrificata in nome dell’opportunità per un obiettivo di “progresso”.
La rivoluzione egiziana è stata ispirata dalla Tunisia e, a sua volta, “lo spirito di Tahrir” si è diffuso in tutto il mondo. Ha contribuito a ispirare altri movimenti guidati dai giovani in Europa e Nordamerica, tra cui Occupy Wall street, che a sua volta ha contribuito a far nascere nuove politiche anticapitaliste ed ecosocialiste. In effetti si può tracciare una linea piuttosto retta da Tahrir a Occupy, alla campagna presidenziale statunitense di Bernie Sanders del 2016, all’elezione di Alexandria Ocasio-Cortez al congresso e alla sua difesa del green new deal (accordo sulla transizione ecologica).
Diritti umani e ambiente
Dove i diritti umani sono sotto attacco, lo è anche la natura. Dopotutto, le comunità e le organizzazioni che affrontano la più grave repressione e violenza in tutto il mondo (che vivano nelle Filippine o in Canada o in Brasile o negli Stati Uniti) sono costituite in modo schiacciante da popolazioni indigene che cercano di proteggere i loro territori da progetti estrattivi inquinanti, molti dei quali stanno anche guidando la crisi climatica. Difendere i diritti umani, ovunque viviamo, è quindi imprescindibile dalla difesa di un pianeta vivibile.
Inoltre alcuni governi stanno finalmente introducendo una legislazione sul clima significativa, ma legata alle libertà politiche. Il senato degli Stati Uniti e l’amministrazione Biden sono stati finalmente spinti ad approvare la legge per diminuire l’inflazione, per quanto difettosa. Ciò è avvenuto come risultato diretto della pressione pubblica, del giornalismo investigativo, della disobbedienza civile, dei sit-in negli uffici legislativi, delle cause legali e di ogni altro strumento disponibile nell’arsenale non violento. E, alla fine, i legislatori si sono riuniti per approvare l’atto perché temevano cosa sarebbe successo quando avrebbero affrontato gli elettori a novembre se si fossero presentati da loro a mani vuote. Se i politici statunitensi non avessero dovuto temere l’opinione pubblica, perché l’opinione pubblica ne aveva avuto una maggiore paura, niente di tutto questo sarebbe successo.
Una cosa è certa: non otterremo il tipo di cambiamento richiesto dalla crisi climatica senza la libertà di manifestare, partecipare, fare pressione sui leader politici e dire la verità in pubblico. Se le manifestazioni sono vietate e fatti scomodi sono definiti “false notizie”, come succede nell’Egitto di Al Sisi, allora il gioco è finito. Senza gli scioperi, le proteste e le inchieste, saremmo in una situazione molto peggiore. Una qualsiasi di queste attività è sufficiente per far finire in carcere ogni attivista o giornalista egiziano, in una cella vicino a quella di Alaa Abdel Fattah.
Quando è arrivata la notizia che il prossimo vertice delle Nazioni Unite sul clima si sarebbe tenuto a Sharm el Sheikh, gli attivisti egiziani, quelli all’interno del paese e quelli in esilio, avrebbero potuto invitare il movimento per il clima a boicottarlo. Hanno scelto di non farlo, per una serie di motivi. Ma hanno chiesto solidarietà. L’Istituto del Cairo per gli studi sui diritti umani, per esempio, ha invitato la comunità internazionale a usare il vertice “per puntare i riflettori sui crimini commessi in Egitto e sollecitare le autorità egiziane a cambiare rotta”.
C’erano grandi speranze che gli attivisti nordamericani ed europei spingessero i loro governi a subordinare la loro presenza e partecipazione al rispetto da parte dell’Egitto dei requisiti fondamentali in materia di diritti umani, inclusa l’amnistia per i prigionieri politici in carcere per “crimini” come l’organizzazione di una manifestazione o per aver postato una dichiarazione scomoda sul regime o aver ricevuto un finanziamento straniero.
La chiarezza dei giovani
Ma la risposta da parte del movimento globale è stata soffocata. Tanti gruppi hanno aggiunto il loro nome a diverse petizioni; sono stati scritti un po’ di articoli sulla situazione dei diritti umani; in Germania alcuni attivisti climatici, molti dei quali esuli dall’Egitto, hanno tenuto delle piccole proteste con cartelloni come “No Cop27 finché Alaa non sarà libero” o “No al greenwashing delle prigioni egiziane”. Ma non abbiamo visto una pressione internazionale di questo tipo, capace di preoccupare il regime egiziano.
È difficile sopravvalutare la natura totalizzante della guerra di Al Sisi alla società civile. Hrw riferisce che “nel 2014 Al Sisi ha modificato, per decreto, il codice penale per punire con l’ergastolo o con la pena di morte chiunque richieda, riceva o favorisca il trasferimento di fondi, sia da fonti internazionali sia da organizzazioni locali, con lo scopo di compiere un attività che danneggi un ‘interesse nazionale’ o l’indipendenza della nazione o che metta in pericolo la pubblica sicurezza”. La pena di morte per aver ricevuto una sovvenzione.
Eppure tutte le principali fondazioni statunitensi ed europee saranno a Sharm el Sheikh e incontreranno i gruppi che finanziano e altri che potrebbero considerare di finanziare, in un paese in cui dire la verità sullo sfruttamento ambientale può costarti la vita.
Tutto questo è un po’ sconcertante. Perché invitare finanziatori e gruppi ambientalisti in Egitto quando il regime ha una tale ostilità verso queste stesse attività al livello nazionale? La verità – scomoda per tutti coloro che saranno presenti – è che niente servirebbe di più ad Al Sisi che trasformare Sharm el Sheik in una specie di guardino zoologico del non profit, dove attivisti e finanziatori internazionali per il clima possono trascorrere due settimane gridando all’ingiustizia nord-sud davanti alle telecamere, con alcuni gruppi locali che hanno ricevuto l’approvazione del governo inseriti nel programma per garantirne l’autenticità. Perché? Perché così l’Egitto sembrerebbe qualcosa che decisamente non è: una società libera e democratica. Una buona fonte di gas naturale. O un paese adatto per un nuovo prestito del Fondo monetario internazionale.
A detta di tutti, il governo egiziano sta freneticamente costruendo una bolla a Sharm el Sheikh, dove metterà in scena qualcosa che sembra una specie di democrazia. La domanda che devono affrontare i gruppi della società civile è: sarai complice o farai il possibile per interrompere lo spettacolo?
In tutti i piani per il vertice sul clima, sponsorizzato dalla Coca-Cola, il dettaglio più agghiacciante è sicuramente l’annuncio che questo sarà il primo raduno di questo tipo ad avere un padiglione per bambini e giovani all’interno della sede ufficiale: uno spazio dedicato, “un luogo di ritrovo per colloqui, istruzione, creatività, briefing politici, riposo e relax, che riunisce le voci dei giovani di tutto il mondo”. Questo permetterà ai giovani – udite udite – di “dire la verità al potere”.
Non ho dubbi che molti giovani in quel padiglione pronunceranno discorsi potenti, come hanno fatto precedentemente a Glasgow e ai vertici sul clima. I giovani sono diventati veri leader del clima e hanno introdotto l’urgenza e la chiarezza morale di cui hanno disperatamente bisogno in molti spazi istituzionali dedicati al clima. Quella stessa chiarezza morale è ora necessaria.
Fermare i cambiamenti climatici e combattere per i diritti umani sono lotte interconnesse, non dovrebbero essere separate
Nel 2011 i giovani egiziani non avevano un padiglione finanziato dallo stato. Hanno avuto una rivoluzione. Hanno invaso piazza Tahrir, chiedendo un tipo diverso di paese, senza l’ombra onnipresente della paura, uno in cui gli adolescenti non scompaiono nei sotterranei della polizia e non riappaiono morti, con i volti gonfi e insanguinati. Quella rivoluzione rovesciò un dittatore che aveva governato da prima che nascessero. Ma poi i loro sogni sono stati infranti da tradimenti politici e violenze. In una delle sue recenti lettere, Abdel Fattah ha scritto di quanto sia doloroso condividere la sua cella con adolescenti che sono stati arrestati quando erano bambini: “Erano minorenni quando sono stati messi in prigione e stanno lottando per uscire prima di raggiungere la maggiore età”.
Una delle adolescenti che ha partecipato all’occupazione di piazza Tahrir nel 2011 è Sanaa Seif, la straordinaria sorella minore di Abdel Fattah. Aveva solo 17 anni al tempo in cui ha fondato un giornale rivoluzionario, Al Gornal, che ha pubblicato decine di migliaia di copie ed è diventata la voce di piazza Tahrir. È stata anche montatrice e responsabile delle riprese del film documentario The square, candidato all’Oscar nel 2013.
Lei stessa è stata imprigionata più volte per aver denunciato le violazioni dei diritti umani e per aver chiesto il rilascio di suo fratello. Tempo fa in un’intervista mi aveva detto di avere un messaggio per i giovani attivisti diretti a quel padiglione: “Ci abbiamo provato. Abbiamo detto la verità al potere”. Ora, dice, molti attivisti stanno trascorrendo la loro gioventù in prigione. “Quando vai, ricorda che puoi essere la voce di altri giovani… Per favore, difendiamo quell’eredità. Per favore, dì davvero la verità al potere. Avrà un impatto… gli occhi sono puntati su di te”.
Ma, mentre il summit del clima si avvicina e lo sciopero della fame di Alaa Abdel Fattah continua, Sanaa Seif sta perdendo la pazienza con i grandi movimenti per il clima che sono stati in silenzio finora. “Onestamente sono stufa dell’ipocrisia del movimento climatico,” ha scritto su Twitter all’inizio di ottobre. “Per mesi le proteste provenienti dall’Egitto hanno avvertito che questa #COP27 andrà ben oltre il greenwashing, che le conseguenze su di noi saranno orribili. Eppure molti stanno scegliendo di ignorare la situazione dei diritti umani”.
Questo, ha sottolineato, è il motivo per cui l’attivismo per il clima è spesso considerato un esercizio d’élite, disconnesso dalle persone con preoccupazioni quotidiane urgenti, come far uscire di prigione i propri familiari. “State facendo in modo che #climateaction rimanga un concetto esclusivo per i pochi che hanno il lusso di pensare oltre all’oggi”, ha scritto. “Fermare i cambiamenti climatici e combattere per i diritti umani sono lotte interconnesse, non dovrebbero essere separate. Soprattutto perché abbiamo a che fare con un regime sostenuto da aziende come Bp ed Eni. E davvero, quanto è difficile sollevare entrambe le questioni? #FreeThemAll #FreeAlaa”.
Non è difficile, ma ci vuole coraggio. Il messaggio che gli attivisti dovrebbero portare al vertice sul clima, indipendentemente dal fatto che vadano in Egitto o si impegnino da lontano, è semplice: se non si difendono le libertà politiche, non ci sarà alcuna significativa azione per il clima. Né in Egitto né altrove. Questi problemi sono intrecciati, così come i nostri destini.
È tardi, ma c’è ancora abbastanza tempo per fare la cosa giusta. Human rights watch chiede che il segretariato della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, che stabilisce le regole per questi vertici, “sviluppi criteri sui diritti umani per i paesi che ospiteranno le prossime Cop e che devono impegnarsi a soddisfare come parte dell’accordo di accoglienza”.
È troppo tardi per questo vertice, ma per chi ha a cuore la giustizia climatica non è troppo tardi per mostrare solidarietà ai rivoluzionari che hanno ispirato milioni di persone in tutto il mondo nel 2011, quando hanno rovesciato un tiranno. Potrebbe anche esserci il tempo di spaventare abbastanza Al Sisi con la prospettiva di un incubo per le sue pubbliche relazioni sul mar Rosso, tanto da convincerlo ad aprire le porte di alcune delle sue segrete prima che arrivino tutte le telecamere. Perché, come ci ricorda Alaa Abdel Fattah dalla disperazione della sua cella, non siamo ancora stati sconfitti.