La terribile verità sul cambiamento climatico

di Joëlle Gergis

Gli ultimi aggiornamenti scientifici sono allarmanti, anche per gli stessi climatologi 

Lo scorso giugno, alla conferenza annuale dell’Australian Meteorological and Oceanographic Society – il convegno più importante per chi lavora nel campo della climatologia – ho tenuto un discorso di apertura sulla vulnerabilità dell’Australia al cambiamento climatico e sulle sfide per la nostra politica. L’ho vista come un’opportunità per fare un riassunto dello scenario politico e scientifico in cui ci troviamo, a seguito delle nostre elezioni. 

Facendo parte della dozzina di autori principali australiani che partecipano alla stesura del sesto rapporto di valutazione dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change dell’ONU), attualmente in corso di lavorazione, ho una profonda consapevolezza della rapidità e della severità con cui il cambiamento climatico sta colpendo il pianeta. L’anno scorso sono anche stata chiamata a far parte del consiglio scientifico del Climate Council, il più importante organo indipendente australiano che fornisce al pubblico la consulenza di esperti su climatologia e politiche climatiche. In breve, sono nella sfidante posizione di essere uno dei pochi cittadini australiani che ha davanti agli occhi la terrificante realtà della crisi climatica.

Mentre preparavo il mio discorso sono stata assalita da una profonda angoscia. L’ho sentita nel momento in cui mi sono resa conto che non ci rimane nessun luogo in cui nasconderci dalla terribile verità.

L’ultima volta che l’avevo provata era quando andai a trovare mio padre in ospedale dopo un’intervento d’urgenza per una grave emorragia al cervello. Mentre lui giaceva sotto anestesia in terapia intensiva, esaminai la sua TAC insieme a uno dei chirurghi presenti, che mi spiegò con delicatezza che la macchia scura che copriva quasi un quarto dell’immagine del suo cervello era un accumulo di sangue. Nonostante avessero fatto del loro meglio per drenare l’area e arginare l’emorragia, il danno catastrofico era innegabile. La brutalità dell’evidenza era sotto gli occhi – tutto il peso della situazione è stato come un pugno nello stomaco.

I risultati che ora stanno emergendo nella comunità scientifica dei climatologi sono, persino per gli stessi esperti, altrettanto allarmanti.

Un parametro comune usato per studiare gli effetti del riscaldamento globale è la “sensibilità climatica all’equilibrio” ECS (Equilibrium climate sensitivity), definita come la quantità totale di riscaldamento della superficie globale che si verificherà nel tempo, come conseguenza del raddoppiamento della concentrazione di CO2 atmosferica rispetto ai livelli preindustriali. È talvolta chiamato il Sacro Graal della climatologia perché aiuta a quantificare gli specifici rischi posti alla società umana dal progressivo riscaldarsi del pianeta.

Sappiamo che le concentrazioni di CO2 sono aumentate dai livelli preindustriali di 280 parti per milione (ppm) ai circa 410 ppm di oggi, le più alte mai registrate da almeno tre milioni di anni. Se non saranno intraprese massicce misure di mitigazione per contenerne l’aumento, è probabile che raggiungeremo 560 ppm intorno al 2060.

Il quinto rapporto di valutazione dell’IPCC, pubblicato nel 2013, stimò che tale raddoppio della CO2 avrebbe probabilmente prodotto un riscaldamento della Terra, raggiunto un nuovo equilibrio, tra 1,5° e 4,5°C. Tuttavia, le stime preliminari calcolate usando i più recenti modelli climatici globali (utilizzate nell’attuale valutazione IPCC in corso, la cui pubblicazione è prevista per il 2021) sono di gran lunga più elevate rispetto ai risultati dei modelli di generazione precedente. I primi rapporti preliminari prevedono che un raddoppio della CO2 potrebbe effettivamente produrre tra 2,8° e 5,8°C di riscaldamento. Incredibilmente, almeno otto degli ultimi modelli prodotti dai maggiori centri di ricerca di Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Francia stanno mostrando una sensibilità climatica di 5°C o più.

Quando questi risultati sono stati resi noti per la prima volta durante un seminario di modellistica climatica a marzo di quest’anno, la mia casella di posta è stata sommersa da email provenienti dai miei colleghi dell’IPCC presi dal panico. E se i modelli fossero corretti? La Terra ha già superato qualche punto di non ritorno? Ci troviamo già in uno scenario di “cambiamento climatico brusco”?

Gli elaborati di tutti i modelli non sono ancora disponibili, ma quando molti di quelli più avanzati al mondo producono indipendentemente gli stessi allarmanti risultati, è difficile non preoccuparsi.

Alla firma dell’Accordo di Parigi in sede ONU nel dicembre 2015 fu definito un obiettivo specifico: contenere il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2°C, e il più vicino possibile a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali (definiti come le condizioni climatiche sperimentate durante il periodo tra gli anni 1850 – 1900). Sebbene ammirevole nelle intenzioni, l’accordo non imponeva limiti giuridicamente vincolanti alle nazioni firmatarie e non conteneva meccanismi di esecuzione. Invece, ogni paese si è impegnato a divulgare pubblicamente i contributi determinati a livello nazionale NDC (Nationally Determined Contributions) per ridurre le emissioni. In sostanza, spetta a ciascuna nazione agire nell’interesse pubblico.

Se anche si raggiungesse l’obiettivo più ambizioso di 1,5°C, ciò comporterà la distruzione di un ulteriore 70-90% della barriera corallina rispetto ad oggi, come afferma il Rapporto speciale dell’IPCC sul riscaldamento globale di 1,5°C, pubblicato lo scorso ottobre. Con 2°C di riscaldamento, scomparirebbe un devastante 99% delle barriere coralline tropicali. Un intero componente della biosfera terrestre – il nostro sistema di supporto vitale planetario – verrebbe eliminato. Gli effetti a catena su quel 25% di specie marine che dipendono dalle barriere coralline sarebbero profondi e inestimabili.

Quindi che riscontri ci sono, in termini concreti, dall’Accordo di Parigi? 

Nel 2017 abbiamo raggiunto 1°C di riscaldamento rispetto alle condizioni globali preindustriali. Secondo il “Rapporto sul divario delle emissioni” del Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP), pubblicato nel Novembre 2018, gli attuali NDC incondizionati comporteranno un aumento della temperatura media globale tra 2,9° e 3,4°C rispetto ai livelli preindustriali entro la fine di questo secolo.

Per limitare il riscaldamento a +2°C rispetto ai livelli preindustriali, il mondo deve triplicare i suoi attuali impegni di riduzione delle emissioni. E se questo sembra arduo, per limitare il riscaldamento globale a +1,5°C, lo sforzo globale dovrà essere cinque volte quello attualmente previsto.

Da parte sua, il governo federale australiano si è impegnato entro il 2030 a ridurre le emissioni del 26-28% rispetto ai livelli del 2005, ma questo obiettivo secondo gli esperti è invece più in linea con un riscaldamento globale di 3° a 4°C. Per quanto il primo ministro Scott Morrison affermi che rispettare i nostri impegni dall’Accordo di Parigi sarà “una passeggiata”, il rapporto UNEP è esplicito nell’identificare l’Australia come una delle nazioni del G20 che non riuscirà a raggiungere i suoi già inadeguati NDC entro il 2030.

Con solo 1°C di riscaldamento che stiamo già vivendo, il 50% della Grande Barriera Corallina è già morto. Stiamo assistendo al catastrofico collasso dell’ecosistema del più grande organismo vivente sul pianeta. Quando condivido queste informazioni orribili con il pubblico in ogni parte dell paese, spesso mi fermo per consentire alle persone di comprendere a fondo e capire la portata di tali informazioni.

Sempre più spesso, dopo i miei interventi mi trovo inaspettatamente a piangere nella mia camera d’albergo, o sul volo di rientro. Ogni tanto, la realtà di ciò che la scienza sta dimostrando riesce a sciogliere quel lato emotivo che di solito tengo sotto ghiaccio per poter svolgere il mio lavoro. In quei momenti, ciò che emerge è puro dolore da lutto. È l’unica sensazione che si avvicina al dolore che ho provato mentre mi rendevo conto della gravità della lesione cerebrale di mio padre. Accettare di riconoscere l’arrivo del punto di non ritorno è un atto di coraggio.

Ma negli ultimi tempi il mio dolore viene rapidamente soppiantato dalla rabbia. Rabbia vulcanica, esplosiva. Perché nello stesso rapporto dell’IPCC che delinea i dettagli dell’imminente apocalisse, la comunità scientifica dei climatologi ha chiaramente affermato che limitare il riscaldamento a 1,5°C è geofisicamente possibile.

È improbabile che le emissioni passate possano da sole aumentare la temperatura media globale di 1,5°C oltre i livelli preindustriali. Il rapporto IPCC afferma che se tutte le emissioni antropogeniche di gas serra fossero immediatamente ridotte a zero, l’ulteriore riscaldamento in aggiunta a quel 1°C già registrato sarebbe probabilmente inferiore a 0,5°C nei prossimi 20-30 anni. Cioè, se ci attiviamo con urgenza, è tecnicamente possibile invertire la rotta. L’unica cosa che manca sono politiche globali incisive.

Sebbene siano in gioco le basi stesse della civiltà umana, il mondo è su una rotta che ci porterà a mancare di gran lunga i nostri obiettivi concordati alle Nazioni Unite. Peggio ancora: le emissioni globali di CO2 stanno ancora aumentando. In vista di ciò, gli scienziati si stanno concentrando ad analizzare come il pianeta ha risposto durante altri periodi caldi della sua storia.

La sintesi più completa delle condizioni vissute durante i periodi caldi nella storia recente della Terra è stato pubblicato nel giugno 2018 in una delle nostre più importanti riviste, Nature Geoscience, a firma di 59 esperti del settore provenienti da 17 paesi. Il rapporto ha concluso che il riscaldamento tra 1,5° e 2°C in passato è stato accompagnato da uno spostamento significativo delle zone climatiche e dalla “riorganizzazione spaziale” degli ecosistemi terrestri e acquatici.

Questi cambiamenti hanno innescato una significativa, persistente fusione dei ghiacci in Groenlandia e nell’Antartide, scatenando un innalzamento globale del livello degli oceani tra 6 e 13 metri, durato per millenni.

Esaminare la storia climatica della Terra ci insegna che anche con 1,5° o 2°C di riscaldamento, assisteremo a una riconfigurazione del pianeta in modi di cui ancora non ci rendiamo conto. Per non parlare del caso di 3° o 4°C, livello verso il quale siamo ora proiettati. Alcune zone dell’Australia diventeranno invivibili, mentre altre saranno sempre più devastate da eventi meteorologici estremi.

Quest’anno la conferenza dell’Australian Meteorological and Oceanographic Society si è tenuta a Darwin, città colpita il giorno di Natale del 1974 dal famigerato ciclone Tracy, che di fatto la distrusse completamente. Furono distrutti più del 70% degli edifici della città, tra cui l’80% delle abitazioni. Morirono settantuno persone e la maggior parte dei 48.000 residenti rimase senza tetto. Le condizioni furono così disperate che circa 36.000 persone dovettero essere evacuate, molte delle quali ricorrendo agli aerei militari. Fu un disastro di proporzioni monumentali.

Mentre raccoglievo queste informazioni per la mia presentazione, ho capito che il ciclone Tracy era stato un avvertimento. In assenza di azioni forti, vedremo i cicloni tropicali sconfinare nelle aree sul margine meridionale delle attuali zone dei cicloni, in luoghi come il sud-est del Queensland e il nord del New South Wales, le cui infrastrutture non sono in condizioni da far fronte a tali fenomeni.

In queste zone risiedono attualmente oltre 3,6 milioni di persone; semplicemente, non siamo pronti per ciò che sta per succederci.

C’è una motivazione molto razionale per la quale gli studenti australiani stanno scendendo in strada a protestare: l’enormità di ciò che è in gioco è davvero devastante. E restare in silenzio dinanzi a questa emergenza planetaria non è un’opzione contemplabile nemmeno per me. Visto quanto è sconnessa l’attuale politica di questo paese dalla realtà scientifica, è diventato fondamentale un confronto nazionale urgente e pragmatico. Altrimenti la terribile verità che ci resterà da affrontare, sarà quella di vivere su un pianeta destabilizzato.

Come climatologa, in questo momento difficile della nostra storia, la cosa più utile che posso offrire è quella stessa professionalità che il medico ha mostrato a tarda notte nel reparto di terapia intensiva di papà. Uno sguardo lucido e compassionevole sui fatti.

Abbiamo ancora tempo per cercare di limitare la portata del disastro, ma dobbiamo rispondere come in un caso di emergenza. La domanda è: saremo in grado di sfoderare le nostre migliori qualità umane per tempo?

Joëlle Gergis

Joëlle Gergis, pluripremiata climatologa e scrittrice, insegna all’Australian National University. È autrice di “Sunburnt Country: The History and Future of Climate Change in Australia”.

© 2019 The Monthly. All rights reserved.

Per gentile concessione dell’autrice.

https://www.themonthly.com.au/issue/2019/august/1566136800/jo-lle-gergis/terrible-truth-climate-change

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