Ferdinando Pezzopane
Stefano Ditella
Le proteste di Friday for Future e altri movimenti contro una miniera altamente impattante nella valle del fiume Drina ci insegnano che bisogna abbandonare il paradigma estrattivista
Proteste di massa come non si vedevano da anni. Fiumi di persone hanno invaso strade e autostrade delle principali città della Serbia a inizio dicembre. Da Belgrado a Novi Sad centinaia di migliaia di cittadini hanno marciato in segno di protesta contro quella che definiscono l’ennesima prevaricazione delle multinazionali sulle popolazioni locali. Il progetto in questione è una nuova miniera di litio della compagnia Rio Tinto, che sorgerebbe presso Loznica, una cittadina della Serbia occidentale al confine con la Bosnia-Erzegovina, nella valle del fiume Drina. In quest’area sarebbero custodite le più grandi riserve di litio in Europa e tra le più grandi al mondo, riserve che fanno gola alla compagnia mineraria anglo-australiana, la quale ha in piano un progetto da 2,4 miliardi di dollari per un’estrazione prevista di circa 2,3 milioni di tonnellate di carbonato di litio, da cui si ricava il materiale oggi necessario per la produzione di batterie per veicoli elettrici e pannelli fotovoltaici.
La produzione del litio, per quanto necessaria per la transizione ecologica, è altamente impattante dal punto di vista ambientale e il progetto in questione, oltre a causare un potenziale inquinamento delle acque sotterranee e superficiali, produrrebbe circa 57 milioni di tonnellate di rifiuti difficilmente smaltibili, danni all’ecosistema locale per 145 specie protette e comporterebbe un utilizzo d’acqua spropositato, tale da causare forti scompensi della portata dei fiumi Drina e Sava. Un prezzo ambientale troppo elevato, che i cittadini serbi non intendono pagare, come hanno dimostrato lo scorso 4 dicembre paralizzando le principali vie di comunicazione, per chiedere al governo del presidente Vučić un passo indietro.
Per comprendere appieno questa mobilitazione e cosa ha spinto così tante persone a unirsi abbiamo avuto l’occasione di intervistare Andjela, 18 anni, attivista di Fridays For Future Serbia e Marš sa Drine, il movimento di cittadini che si oppone al progetto di Rio Tinto.
Come sei entrata in contatto con le manifestazioni?
Sono parte dell’organizzazione che ha deciso che fosse necessario fare qualcosa nei confronti di questo progetto. Una delle prime cose che abbiamo fatto è stata proprio chiedere alle persone di unirsi e di vedere il problema che abbiamo. Quando ho partecipato alle prime manifestazioni sono stata sorpresa dal numero di persone che c’erano. In quel momento ero veramente entusiasta perché ho realizzato che le persone si stanno finalmente svegliando, stanno vedendo le cose che stanno succedendo e sono pronte a scendere in strada per cercare di catturare l’attenzione dell’opinione pubblica. La cosa interessante è che il governo e i media hanno iniziato, sin da subito, a condividere notizie false sulle manifestazioni, dicendo che alle varie proteste non avevano partecipato più di 20 o 30 persone, quando in realtà erano migliaia le persone in strada. I media nazionali per supportare la narrativa governativa hanno manipolato l’informazione, scattato foto dei piccoli gruppi presenti, non fotografando il corteo nella sua interezza. Quindi se volevi effettivamente sapere come fosse andata la manifestazione dovevi cercare su Instagram e Twitter gli account dei manifestanti o delle organizzazioni che hanno lanciato la protesta.
Avete una piattaforma politica comune e, se sì, le organizzazioni coinvolte condividono tutte le stesse richieste al governo serbo?
Sì, abbiamo discusso insieme le richieste da fare al governo serbo, tutte le richieste che abbiamo formulato sono rappresentative di ogni organizzazione.
Quali sono?
La prima è che la legge approvata dal Parlamento il 25 novembre scorso e firmata dal Presidente Vučić venga cambiata. La nostra richiesta principale è proprio il cambio della legislazione esistente in materia di referendum e di consultazioni pubbliche. Ciò a cui noi ci opponiamo è la misura per cui il principale criterio che rende costituzionalmente valido un referendum – ossia la votazione da parte del 50% degli elettori – viene eliminato. Questo significa che ogni risultato verrà considerato valido, portando a una situazione dove una piccola percentuale della popolazione potrà prendere delle decisioni vitali per l’intera popolazione. Questo nel contesto serbo significa che se la maggioranza non vuole qualcosa, ma solo coloro che vogliono quella cosa hanno partecipato al referendum, il risultato passerà lo stesso. La seconda nostra richiesta è che venga modificata la legislazione sugli espropri, poiché l’attuale proposta di legge ha introdotto una procedura veloce, secondo la quale l’intero esproprio può durare anche solo 8 giorni dalla decisione alla formalizzazione da parte degli organi di controllo. Il tutto lasciando ai cittadini solo 5 giorni per contestare la decisione. Prese insieme queste due leggi renderanno molto più semplice per gli interessi privati il prevalere sugli interessi pubblici per lo sviluppo di progetti di varia natura. Queste leggi sollevano serie domande sulla protezione dei diritti umani e sull’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Ci sono partiti che considerate più vicini alle vostre richieste?
Non credo che ci siano partiti vicini a quello che facciamo, non siamo in alcuna relazione con loro. Abbiamo visto comunque dei partiti che hanno espresso la loro opinione sulla questione, ma siamo abbastanza neutri sul loro operato.
Secondo te quale sarebbe il modo migliore per portare avanti la transizione ecologica, visto che il litio è attualmente una componente fondamentale per le batterie delle auto elettriche e anche per i pannelli fotovoltaici?
Personalmente penso che il litio non possa essere considerato in toto un’alternativa verde, perché nella sua estrazione c’è comunque una forma di inquinamento. Non è pensabile che un paese debba essere inquinato per fini estrattivi, qui non stiamo parlando solo della Serbia ma di tutti i paesi che sono coinvolti nei processi di estrazione delle risorse minerarie necessarie per la «Green economy». La migliore alternativa è trovare un sostituto al litio, dovremmo investire in quelle soluzioni che causano non solo meno inquinamento, ma anche meno sofferenza, perché non c’è alcun fine nobile nel sacrificare una nazione per tutte le altre.
La miniera di litio di Loznica, secondo alcune stime, dovrebbe rendere possibile la costruzione di un milione di auto elettriche l’anno: è chiaro che questa non possa essere la soluzione, ma debba necessariamente essere presa in considerazione l’idea di sviluppare un trasporto pubblico capillare, efficiente e accessibile a tutti.
Il trasporto pubblico è una possibile soluzione. Ovviamente ci sono persone che magari per diverse ragioni potranno non ritenere questa la soluzione ottimale, ma non abbiamo bisogno che tutti quanti facciano la scelta giusta. Abbiamo però bisogno che sia la maggioranza ad andare nella giusta direzione.
Pensi che il governo stia prendendo in considerazione queste alternative?
Non penso che il governo sia veramente interessato all’ambiente e non credo nemmeno che il governo veda il litio come una soluzione alla crisi climatica, penso che sia solo greenwashing. Qualora veniste in Serbia vedreste che abbiamo tanti problemi dal punto di vista ecologico per i quali ci siamo battuti in passato. Nessuno ha mai veramente risolto i nostri problemi e per queste ragioni saremmo felici se almeno riuscissimo a risolvere il problema legato all’estrazione di litio. La costruzione di questa miniera non è solo un problema di sostenibilità ambientale, ma anche di sostenibilità sociale. La nostra opposizione al progetto è anche dovuta alla storia di Rio Tinto: abbiamo visto quello che hanno fatto in altri paesi, tra corruzione, violazione di diritti umani e disastri ambientali, e questa è la ragione principale per cui non crediamo che agiranno diversamente, curandosi delle persone e della natura. Hanno già fatto queste promesse in passato…
Il cambiamento tecnologico non basta
È chiaro che la transizione ecologica non possa passare solamente attraverso un cambiamento tecnologico, ma debba necessariamente essere portata avanti con un cambiamento sociale. Pensiamo ad esempio a cosa accadrebbe se l’intero parco auto europeo venisse sostituito con automobili elettriche: quanto litio sarebbe necessario per una motorizzazione di massa e cosa comporterebbe? Considerando che in media sono necessari 10kg di litio per ogni auto elettrica e nell’Unione europea (comprendendo anche Svizzera, Norvegia e Regno Unito) circolano 242,7 milioni di auto, sarebbero necessarie circa 2,5 milioni di tonnellate di litio per convertirle interamente in veicoli elettrici. Ciò significa che avremmo bisogno di circa 12,8 milioni di tonnellate di carbonato di litio. Il progetto di Rio Tinto, della nuova miniera nella valle del fiume Drina, prevede l’estrazione di circa 2,3 milioni di tonnellate di carbonato di litio: ne consegue che sarebbero necessarie quasi sei miniere di questo tipo per sostituire con auto elettriche i nostri veicoli, una quantità che – volendola visualizzare – necessiterebbe per l’estrazione di un’area estesa grosso modo come la città di Parigi.
Uno scenario al 2040 – coerente con gli Accordi per il clima di Parigi – vedrebbe la domanda di litio aumentare di 42 volte rispetto a quella attuale e la maggior parte di questa domanda sarebbe proprio trainata dai veicoli elettrici, unitamente – in maniera minoritaria – alle batterie per l’accumulo di energia da fonti rinnovabili. Per quanto un’auto elettrica utilizzi 6 volte più kg di minerali rispetto ai veicoli tradizionali (210kg vs 35kg), in realtà a uno sguardo più attento risulterà evidente che non vadano presi solo in considerazione i dati relativi alla quantità di minerali necessari per quella determinata tecnologia, sia essa un’auto elettrica o un pannello fotovoltaico, ma anche la quantità di materiali che serve a usufruirne. Nel caso di un’auto tradizionale usiamo tipicamente una tonnellata di benzina l’anno o 15 tonnellate per tutta la durata della sua vita: questo significa che un’auto a combustione utilizza una quantità di materiale 71 volte maggiore in peso, se esaminiamo anche il petrolio.
Pur considerando tutti questi ragionamenti, è lecito chiedersi se questa domanda di litio non possa essere comunque diminuita attraverso un ripensamento del mondo dei trasporti. Con l’attuale sistema di produzione, tale impatto ambientale sarebbe a tutti gli effetti devastante. Sia chiaro, i combustibili fossili vanno abbandonati il prima possibile e lasciati sotto terra, ma è necessario ripensare attentamente il modo in cui ci spostiamo, perché è impensabile che tutti si possano muovere con auto elettriche: è necessario un trasporto pubblico capillare, di qualità e una diffusione della micromobilità integrata. In sintesi, ci serviranno meno auto, ma elettriche.
Questo implica però anche un profondo cambiamento del sistema economico-produttivo, un cambiamento che metta in discussione l’attuale modello di sviluppo, che oggi è basato sulla mera crescita infinita. Ecco, sicuramente possiamo dire che non sarà questo modello di sviluppo a salvarci dal collasso climatico ed ecologico, soprattutto considerando che il suo presupposto si basa sulla costante appropriazione di risorse da parte dei pochi che detengono il potere economico-finanziario. Un modello di sviluppo che mostra a tutti gli effetti una polarizzazione globale in corso tra centri – in cui di fatto avviene la transizione – e periferie – sulle quali vengono scaricati i costi più importanti in termini sociali e di sfruttamento delle risorse.
La Serbia non vuole essere considerata la periferia dell’Europa, privata delle sue ricchezze, in cui le risorse vengono saccheggiate dalle compagnie minerarie per il benessere delle nazioni più ricche, lasciando inquinamento e sfruttamento. È una democrazia piuttosto giovane, soprattutto considerando il suo passato e il fragile contesto balcanico, che spesso non si è dimostrata abbastanza forte da tutelare i propri cittadini dagli interessi economici delle multinazionali, che continuano ad arricchirsi a discapito delle popolazioni locali, alle quali rimane invece poco o niente. Savo Manojlović, leader di Kreni-Promeni – una delle organizzazioni dietro le proteste contro la costruzione della miniera –, ha dichiarato al Financial Times che il progetto porterà benefici ai cittadini serbi come è stato nel caso dei diamanti per i congolesi. Una metafora che rende in maniera chiara cosa pensano i manifestanti. È per questo che la cittadinanza serba deve avere il diritto di «dire di no», di autodeterminarsi e di avere potere decisionale sul proprio territorio.
Oltre a porre fine allo sfruttamento delle persone, è necessario porsi seri interrogativi sul come rendere socialmente accettabile lo sfruttamento delle risorse minerarie: la sovranità popolare delle risorse dovrebbe essere il punto di partenza di questo processo. È necessario costruire una strada verso la democratizzazione delle risorse naturali, che può passare attraverso la nazionalizzazione, che va nella direzione dell’affermazione della sovranità popolare su importanti mezzi di produzione e sostentamento.
È però centrale integrare i processi di nazionalizzazione su scala nazionale con lotte dal basso per democratizzare l’estrazione e la gestione delle risorse. Un esempio di ciò è l’idea di community mining, avanzata da una delle principali federazioni indigene della Bolivia che è coinvolta nella formulazione collettiva di un’ambiziosa proposta del movimento sociale di riforma costituzionale e ha insistito per il riconoscimento dei principi di proprietà condivisa e di cogestione delle risorse naturali. Secondo questa proposta, le risorse chiave, come i minerali negli altipiani ricchi di risorse del paese, sarebbero di proprietà e gestite congiuntamente dalle organizzazioni statali e comunitarie, determinando l’entità e le modalità di estrazione, nonché la distribuzione di benefici e oneri. Le comunità sarebbero inoltre coinvolte direttamente nel processo estrattivo, basandosi su una lunga tradizione di estrazione mineraria su piccola scala e cooperativa nelle Ande. Ciò potrebbe quindi portare a una gestione collettiva di una parte dell’attività mineraria e un’altra parte sarebbe di proprietà statale, con un livello significativo di controllo dei lavoratori e della comunità.
Per rendere socialmente accettabile lo sfruttamento delle risorse minerarie e naturali è quindi necessario aprire una strada che porti verso una riaffermazione della sovranità delle risorse, attraverso un processo di democratizzazione dal basso, verso una redistribuzione delle ricchezze e verso un rimborso del debito ecologico, che non può gravare sulle periferie. Oltre a ciò, per avviare una giusta transizione ecologica è necessario ragionare su una riduzione dei consumi, abbandonando il paradigma dell’estrattivismo sul quale si basa oggi il nostro sistema economico, iniziando a concepire la produzione per il bisogno piuttosto che per il profitto.
*Ferdinando Pezzopane studia Scienze Internazionali, dello sviluppo e della cooperazione presso l’Università degli Studi di Torino e la Scuola degli Studi di Torino, è attivista di Fridays For Future Italia. Stefano Ditella, 22 anni, della Val di Susa, è uno studente laureando in Scienze Geologiche all’Università di Torino ed è attivista di Fridays For Future Italia.